Non chiamateli buoni propositi

Mettersi a dieta, mangiare più sano, fare sport, iscriversi in palestra, conoscere nuove persone, mettere da parte dei soldi, decidere cosa fare con il proprio lavoro. Gennaio si apre con la lista dei buoni propositi. Una sorta di tradizione auto imposta. Un meccanismo che porta a una sopravvalutazione di sé e di cosa si è in grado di fare, che finisce puntualmente per deludere nel giro di un paio di settimane. Anche se qualcuno – pioniere – arriva fino alla primavera. Una sindrome della falsa speranza, caratterizzata da aspettative irrealistiche nei confronti di quanto velocemente e facilmente è possibile attivare nuovi comportamenti.

Quanto ci vuole per i buoni propositi?

Abbiamo un problema con i buoni propositi. E non perché non riusciamo a portarli a compimento. Quanto piuttosto perché ci ostiniamo ad averli. La maggior parte delle voci nelle liste – cartacee, digitali o mentali – che tengono occupate le persone in questo periodo dell’anno riguardano il cambiamento di abitudini e comportamenti radicati. Eppure la psicologia insegna quanto sia difficile trasformarsi in tal senso.

Uno degli studi più accreditati in questo campo, ha dimostrato che il tempo necessario per consolidare una nuova abitudine va da 18 a 254 giorni, con una media di circa due mesi. Se a fine gennaio ci sembra di non essere riusciti in niente di ciò che ci eravamo prefissati, forse è perché non ci abbiamo provato abbastanza a lungo.

Obiettivi o desideri?

Ma è davvero così? Un secondo elemento dell’equazione è la motivazione. Spesso i propositi falliscono perché manca una spinta reale e autentica a metterli in pratica.
È allora utile domandarsi: quanto sono davvero importanti? Lo sono per me o per l’idea che ho della persona che ritengo di dover essere? O che la società mi spinge ad essere? Un esempio tra tutti: mi metto a dieta perché lo voglio davvero o perché penso sia sano o ritengo che un corpo magro sia ciò che ci si aspetta da me? I buoni propositi non funzionano perché non rispondo alla domanda: cosa desidero davvero?

Ecco allora che bisognerebbe parlare di desideri, piuttosto che di obiettivi e intenzioni. Perché i desideri rimandano intrinsecamente a ciò che vogliamo. Sono una ricerca del nostro equilibrio, di ciò che ci fa stare bene. Sospendono le aspettative – nostre e altrui – di cui i propositi sono farciti, e attingono all’essenza di ciò a cui aspiriamo.

Proprio per questa ragione, è estremamente complesso riconoscerli e diventarne consapevoli. Troppo spesso finiscono per rimanere nascosti e taciuti. Si ha talmente poco l’abitudine a rapportarsi con i propri desideri, che quando emergono li si bolla come poco importanti oppure irrealistici. Finendo così per rimetterli sotto il tappeto e ignorarli.

A tal proposito, pare che Michelangelo Buonarroti dicesse: fa che io possa sempre desiderare più di quanto riesca a realizzare. Il punto è proprio questo. I desideri sono funzionali perché vanno oltre ciò a cui si può realisticamente immaginare di arrivare. E va bene così. Offrono una bussola, un percorso verso la meta che si vuole raggiungere. Magari ambiziosa o improbabile, ma intanto si è realmente smossi a percorrere la strada in quella direzione. Poco importa allora se non si arriva a destinazione: molto più interessante ciò che si trova lungo il cammino. Che a quel punto, sarà senz’altro quello giusto per noi.

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