Perché rifuggiamo il dolore? Tre possibili motivi

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La nostra società è permeata di anestetici al dolore: distrazioni, social, sostanze sono solo alcuni esempi. Come scrive il filosofo Byung-Chul Han, il mondo contemporaneo è terrorizzato dalla sofferenza. Sembra così che non si sia (più?) in grado di sostare con il proprio malessere psicologico: piuttosto che attraversalo e gestirlo, si finisce per ignorarlo. Questo atteggiamento impatta profondamente sul benessere psico-fisico: le emozioni taciute vengono somatizzate e la sofferenza non espressa finisce per accumularsi nel tempo, cronicizzandosi. Ma quali sono i motivi per cui si fatica a dare spazio e libera espressione al dolore?

Il ruolo dei modelli educativi e culturali

La gestione delle emozioni si impara fin dall’infanzia, osservando i propri genitori. Se si nasce e cresce in un ambiente in cui viene dato poco spazio all’espressione della sofferenza e dei vissuti emotivi spiacevoli, ci si abituerà a pensare che sia la prassi. Mancheranno infatti dei modelli educativi differenti a cui far riferimento. Reprimere, semplicemente, sarà percepito come la normalità.

Oltre la famiglia, anche la cultura di appartenenza gioca un ruolo nel meccanismo. Riprendendo le parole di Han: siamo di fronte a un rifiuto collettivo della fragilità. Quella occidentale è infatti una cultura che invalida il dolore e la vulnerabilità. Ad avere successo sono le persone tutte d’un pezzo, forti, sempre positive. Mostrare la propria sofferenza in un ambiente in cui nessuno lo fa, diventa pertanto complesso.

La mancanza di consapevolezza ed educazione emotiva

Un aspetto che spesso manca nella crescita è l’educazione emotiva e affettiva. Si finisce così per attribuire poco valore alla consapevolezza dei propri vissuti interni, semplicemente perché nessuno spiega che invece un valore lo hanno. Si diventa dunque poco capaci a leggere le emozioni proprie e altrui e non si impara ad ascoltarle e modularle. Se non si è in grado di entrare in contatto con le proprie sensazioni, si avrà difficoltà ad essere consapevoli di quali queste siano e – quindi – si finirà per tacerle.

La paura di sostare con sé stessi

Il dolore è quella condizione in cui ci si ritrova da soli, al proprio cospetto. Un’esperienza che, seppure alle volte è condivisa, si affronta in solitudine. Si è dunque necessariamente in ascolto di sé, in quello che Platone chiamava “il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa”. Ed è proprio in questo dialogo che si fatica a sostare.

Sebbene la nostra sia una società sempre più individualista, manca la capacità di stare da soli con sé stessi. Si sfugge da sé, riempendo il tempo, le attese e i momenti con distrazioni e impegni. Si satura l’agenda e la testa per evitare di guardarsi e ascoltarsi. In definitiva, non si attraversa il dolore perché non ci si concede l’occasione di farlo.

Tuttavia, come ben raccontato dal cantautore Michele Bravi, in un recente intervento:

“È importante attraversarlo, il dolore. Serve dargli uno spazio nella propria vita. Non puoi pensare di nasconderlo in uno scantinato, sotto il tappeto. Il dolore va esposto. In mezzo al salotto. Come se fosse una statua elegante da dire a tutti: guardate che bella. Non è un mostro sulla schiena, ma qualcosa che ti tiene per mano tutti i giorni. Una volta che gli dai questo spazio, trova il suo ruolo.”

L’invito, dunque, è uno: arredare “la propria casa”, piuttosto che voltarle le spalle.

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