Risorse, ma umane: la rivoluzione del dipendente-cliente

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Mai come oggi, quella di mantenere una visione di ampio respiro mentre si gestisce il quotidiano sembra una “mission impossible”, in cui teoria e realtà di scontrano definitivamente. Chi si occupa di persone – risorse, ma umane – è alle prese con il paradosso del secolo: ritirare quanto è stato dato “in emergenza” – la flessibilità totale, che per le persone si è tradotta in fatica ma anche in fiducia, e contemporaneamente evitare che un nuovo sistema di valori porti chi può farlo ad andare altrove, mentre chi non può andarsene resta, sì, ma a trazione ridotta.

La teoria vorrebbe che funzionassero ancora i vecchi schemi: si decidono delle strategie, si fanno dei piani e di conseguenza nuove policy “calano” in modo top down sulle persone; la pratica urla però a gran voce che non funzionerà, in troppi hanno già preso la pillola rossa e non possono o non vogliono tornare indietro. In questa evoluzione da ricettore passivo a interlocutore con potere d’acquisto, il dipendente può essere visto come un odierno consumatore, da convincere a comprare quel ruolo lavorativo in quell’azienda e a restarvi fedele, con scelte ripetute e confermate nel tempo. In questa prospettiva, i responsabili delle risorse umane devono trasformarsi in professionisti di marketing e vendita, e la loro capacità di far vedere e far scegliere ai dipendenti i benefici del loro “prodotto lavoro” farà la differenza sui risultati dell’azienda.

Secondo un recente report di Gartner, il profilo di questi “nuovi clienti” è caratterizzato da alcune aspettative precise, passate con l’epoca covid dall’essere aspirazionali – e quindi concessioni che l’organizzazione poteva scegliere o meno di fare – a prerequisiti di scelta, ovvero condizioni necessarie al funzionamento della relazione di lavoro.
Elencate in ordine di crescente importanza per chi li esprime, le aree di aspettativa citate nel report sono quattro.

1) Il 52% dei dipendenti afferma che le policy di flessibilità che l’azienda deciderà di avere avranno un peso sulla loro scelta di rimanere – quindi le scelte che in questo periodo le aziende stanno facendo sul come tornare a nuove modalità di lavoro con la fine dell’emergenza pesano sulla probabilità che hanno di trattenere almeno metà dei loro talenti. Persone che si sono abituate a vivere in ambienti diversi, più vicine alla famiglia oppure al mare o con un ridotto sforzo di commuting si domanderanno se vogliono davvero lavorare per un datore di lavoro che li richiama in ufficio come se si trattasse di andare al militare. Bisognerà quindi non solo fare delle scelte bilanciate, ma anche spiegarle: ci sono delle ragioni per la presenza, difficili da conoscere perché un tempo date per scontate, che le persone hanno il diritto di comprendere. Al tempo stesso, ci sono delle ragioni per la flessibilità – ormai appaiono antidiluviane quelle del work-life balance che pre-covid sembravano riguardare soprattutto le mamme – e queste vanno spiegate al management, che non ha alcun incentivo ad assumersi i rischi percepiti da una diminuzione della propria capacità di controllo.

2) Il 53% dei lavoratori si aspetta che la propria organizzazione si occupi di questioni importanti per loro – questo parametro Gartner lo chiama “significato condiviso” e circola da tempo nei report HR, ma prima del covid sembrava che ne fossero portatori “solo” le donne e i giovani, mentre oggi pare riguardare tutti. Oggi, almeno in linea teorica, il senso che un’azienda è in grado di dare a ciò che fa e che fa fare alle proprie persone deve connettersi in qualche modo con un senso più ampio, che riguardi sostenibilità ambientale e umana, che si riferisca non solo alla produzione di beni e servizi ma a un ecosistema più grande, e che possa essere raccontato e dimostrato. Quest’ultima parte è forse la più sfidante: l’anello mancante, soprattutto su tematiche trasversali e valoriali, è quasi sempre quello della capacità di comunicare, sia verso il basso che verso l’alto, in una modalità che Gartner definisce “open source” e che propone come alternativa a quella “top down”.

3) Il 70% delle persone si aspetta che la propria organizzazione faccia qualcosa per il loro benessere. Si tratta di una maggioranza di persone che dà per scontato che ci sia attenzione verso il loro stato fisico, psicologico ed emotivo, e che il benessere sia un obiettivo a monte e non a valle – che non emerga, insomma, solo quando viene a mancare. La sfida dei prossimi anni starà nella capacità delle aziende di tradurre questa aspettativa non solo in misure di intervento che vanno a curare il problema quando si manifesta, ma in misure preventive, ben più difficili da misurare perché, mantenendo il benessere, si manifestano con dei “non eventi”: se le persone non stanno male, infatti,  probabilmente nemmeno lo sanno.

4) Ultima e più voluminosa tra le aspettative, quella espressa dall’82% del campione: essere viste dalla propria azienda come persone e non solo “come dipendenti”. Che cosa vuol dire? Le risorse, appunto, si presentano umane, e come tali vogliono essere impiegate: dopo aver perso terreno per anni di fronte alle macchine, gli umani si propongono forti e interessanti proprio nella loro complessità, di cui si intuisce il vantaggio competitivo di fronte al cambiamento, e la sfida sta nel dimostrare che è proprio quella complessità ad avere valore.
Il territorio umano è sempre stato più grande della mappa che lo rappresentava in azienda, ma adesso sembra non essere più disposto a ridursi per entrare nel posto di lavoro. Le persone non vogliono filtrare le proprie dimensioni personali, valoriali, affettive: vogliono, semplicemente, essere pienamente ciò che sono, e che questo non costituisca un elemento imponderabile nell’equazione della relazione lavorativa. Quel che fino a oggi si è tradotto in inclusione della diversità, in pratiche di work-life balance, in “quote” di vario tipo, è il mosaico naturale di un’identità complessa che riguarda tutti, nessuno (ma proprio nessuno) escluso.

Sembrerebbe banale a dirsi: che cosa sono i lavoratori, se non persone? Persone che ogni mattina, al momento di iniziare a lavorare, si domandano quanto del sé che vorrebbero essere potranno mettere nel sé che sono. E forse questa è, alla fine la vera rivoluzione: vederle e rappresentarle come tali e lasciare che sia la loro ricchezza ad arricchire le organizzazioni, anche in modo inaspettato.

Mission impossible? Così sembra a chi se la trova davanti mentre tutto il resto continua a essere drammaticamente incerto e la pressione sugli obiettivi non scende neanche un po’. Può consolare sapere che le stesse sfide si stanno presentando in ogni Paese del mondo occidentale, e che questo provocherà un cambiamento radicale ormai inevitabile. I primi ad abbracciarlo se ne faranno attori. Gli altri, prima o poi, seguiranno.

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