In Italia abbiamo i lavoratori più tristi d’Europa: sono tristi senza essere arrabbiati e sono stressati senza avere grandi prospettive di cambiamento. E’ quanto emerge dall’ultimo report Gallup sullo “Stato globale del mondo del lavoro”: in una fotografia complessiva che sa di fallimento per tutti i lavoratori del mondo, se l’obiettivo sono il benessere e la felicità, l’Italia traccia un disegno abbastanza unico in Europa.
Dichiarano infatti di aver provato un’intensa tristezza nella giornata lavorativa precedente il 27% degli intervistati italiani, e peggio di noi fa solo Cipro con un punto percentuale in più. Non sono tristi invece i finlandesi e gli islandesi, ma non sono tristi nemmeno gli ungheresi e i cittadini del Kosovo, facendo pensare a una valutazione molto influenzata dalle aspettative culturali del luogo, a ciò insomma che percepiamo come un livello di “non tristezza” naturale – vogliamo chiamarla felicità? – mancando il quale ci sembra di poterci definire tristi. Comunque sia, un lavoratore italiano su tre oggi prova tristezza: se ci guardiamo intorno possiamo intuirlo dalla piega della bocca sotto la mascherina o dall’inclinazione delle spalle davanti alla quinta mini-riunione online della mattinata. Tristemente incastrati in agende digitali più capienti di noi.
Ma, forse grazie al buon cibo, al clima, al calore della famiglia e a quella tendenza tutta italiana a saperci adattare, non siamo invece nella top ten dei più arrabbiati, dove dopo il nostro 21° posto si colloca un bel po’ di Est Europa. Il 16% dei lavoratori italiani si dicono arrabbiati, e gli altri? Gli altri no. Ma la sensazione è che a fare da contraltare alla rabbia non sia tanto la serenità quanto la rassegnazione.
Infatti, alla domanda “da 1 a 10 dove diresti che è la tua vita oggi: quanto vicina al 10 nel complesso, o quante probabilità ha di arrivarci in futuro?” – un indicatore articolato, che Gallup traduce con un complessivo senso di “thrive”, ovvero non solo benessere ma “prosperità”, fioritura – l’Italia di aggiudica un molto modesto 28° posto in Europa, a sole dieci caselle dall’ultima (Cipro), a capo di un gruppo di coda tendenzialmente est europeo. Al primo posto l’inossidabile Finlandia, dove l’84% dei lavoratori è felice, poi le solite Danimarca, Islanda, Olanda, Svezia e Norvegia. In Italia, a sentirsi nella direzione giusta per la felicità sono solo il 40% delle persone: il 60% invece si sente nella parte bassa della scala della felicità e non vede un potenziale progresso positivo nemmeno in futuro.
Come si traduce tutto questo sul lavoro? Questo essere tristi ma non arrabbiati, come se fossimo rassegnati a un basso grado di felicità?
Dal punto di vista della mobilità professionale, gli Italiani pensano che questo sia un momento in cui ricollocarsi è letteralmente impossibile: siamo in ultima posizione su questo indicatore, con solo il 18% degli Italiani a pensare che sia un buon momento per cambiare lavoro contro il 69% dei Danesi, il 53% dei Tedeschi e il 40% degli Inglesi.
Inchiodati, insomma, al proprio triste destino? E, di conseguenza, come lavoriamo?
La classifica principale di Gallup fa una sintesi del concetto di “engagement” delle persone nel proprio lavoro attraverso una sintesi delle risposte a queste domande:
1. so che cosa ci si aspetta da me al lavoro
2. ho ciò che mi serve per farlo bene
3. ogni giorno ho l’opportunità di fare ciò che so fare meglio
4. ho ricevuto qualche tipo di riconoscimento del mio lavoro negli ultimi sette giorni
5. il mio capo sembra tenere a me come persona
6. c’è qualcuno che incoraggia il mio sviluppo
7. la mia opinione conta
8. la missione della mia azienda mi fa sentire che il mio lavoro è importante
9. i miei colleghi sono impegnati nel fare un lavoro di qualità
10. ho un miglior amico sul lavoro
11. negli ultimi sei mesi, ho avuto una conversazione sul mio progress
12. nell’ultimo anno, ho avuto l’opportunità di imparare e crescere
Secondo Gallup, una risposta positiva alle domande sopra si riflette in un coinvolgimento attivo nel proprio ruolo lavorativo: le persone hanno più energia, sono più proattive, più creative, sono disposte a prendersi dei rischi, hanno relazioni migliori e stanno meglio. Alla fine, lavorano meglio e producono meglio.
In questa classifica, con un 4% di persone che risultano essere “coinvolte” nel proprio lavoro, l’Italia occupa la 38° e ultima posizione in Europa e nel mondo, dove la media è del 21%: una linea già spaventosamente bassa, eppure gigantesca rispetto alla nostra. Ci si avvicina solo il Giappone, con il suo 5%.
In Italia lavoriamo, insomma, come se non avessimo altra scelta. Come se ci fossimo rassegnati a dare di meno di quel che potremmo. Come se ci fossimo abituati allo stress (dichiarato dal 49% dei lavoratori italiani), alla preoccupazione (dal 45%) e alla mediocrità di quel sentirsi sempre insoddisfatti che riguarda la grande maggioranza di noi (il 60% dei cosiddetti “non thriving”).
E, in cambio, diamo meno che possiamo, ce ne stiamo ai margini: forse chissà, vorremmo proprio diventare invisibili.
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