Lidija uccisa dall’ex, dal compagno l’appello alla ministra Cartabia

pexels-artem-mizyuk-190976

Cinquantatre femminicidi da inizio anno (erano 55 nello stesso periodo del 2021) – di cui 46 in ambito familiare affettivo – sei solo nell’ultima settimana, considerando i casi confermati dal Viminale. Numeri a cui si aggiunge la donna uccisa ieri dal figlio 17enne a Napoli. Le statistiche sono sempre le stesse: in Italia viene uccisa una donna ogni tre giorni. Il maggior numero di vittime in Lombardia con 9 femminicidi da gennaio, poi Veneto ed Emilia Romagna (7), Sicilia (6), Piemonte (5), Lazio e Campania (4). Quasi tutte tragedie annunciate: donne separate o in fase di separazione, maltrattate, minacciate dagli ex, con un passato di violenze, denunce archiviate, pene ridotte, battaglie per l’affidamento dei figli. E il ddl annunciato a dicembre con le nuove norme contro la violenza di genere è fermo in Senato, in Commissione giustizia. La ministra per le Pari Opportunità e la famiglia, Elena Bonetti, sta facendo pressioni affinché venga sbloccato e ha chiesto di procedere con la massima urgenza all’analisi del testo.

L’ultima donna uccisa dal marito da cui si stava separando è Elisabetta Molaro (40 anni): è stata ammazzata nella sua casa di Codroipo, in provincia di Udine, mentre le due figlie di 8 e 5 anni dormivano nella stanza accanto. Gabriela Trandafir (47 anni) è stata uccisa insieme alla figlia 22enne Renata a Castelfranco Emilia (Modena), il giorno prima dell’udienza per la separazione: aveva denunciato l’ex marito ma la procura aveva chiesto l’archiviazione. Lidija Miljkovic, 42 anni, dopo anni di violenze è morta per mano di Zlatan Vasiljevic, che ha ucciso anche l’ex fidanzata Gabriela Serrano, di Rubano (Padova). Sia Lidija sia Gabriela avevano due figli.

L’appello al governo. “Lidija è morta quando le hanno tolto l’affido esclusivo dei ragazzi, la ministra Cartabia deve colmare le lacune: servono professionisti specializzati a cui affidare i casi di violenza domestica“, spiega a Radio24, Daniele Mondello, compagno di Lidija, che lascia una figlia di 14 anni e un figlio di quasi 16 anni. “Adottare i bambini sarebbe il mio desiderio, avevo promesso a Lidija che mi sarei preso cura di loro se fosse accaduto qualcosa. In ogni caso resterò al loro fianco, devo metterli al sicuro, poi vedremo”, sottolinea Mondello, che conosceva Lidija da circa 10 anni, convivevano da settembre 2020. Lavoravano insieme, lui sapeva tutto di lei: i maltrattamenti, le violenze subite dall’ex marito, sposato nel 2005 e che lei aveva denunciato la prima volta nel 2018. Vasiljevic – 42 enne di origini bosniache – dopo i divieti di avvicinamento e gli arresti domiciliari era tornato libero a febbraio 2021, quando la Corte d’appello di Venezia aveva ridotto la condanna a un anno e sei mesi (quattro mesi in meno rispetto alla sentenza di primo grado) e concesso la sospensione condizionale della pena. Ad aprile 2022 il Tribunale di Vicenza ha poi tolto l’affido esclusivo dei figli alla madre, affidandoli ai servizi sociali, con il compito di mediare tra i genitori, sostenere le parti nelle rispettive genitorialità, provvedere a riallacciare i rapporti padre figlio calendarizzando – ove il padre lo richieda – visite in modalità protetta. Due anni prima invece i giudici avevano sospeso la responsabilità genitoriale dell’uomo e gli incontri con i figli, viste le condotte aggressive, testimoniate da denunce querele, referti del ps, messaggi, minacce di morte, ecc.

Durante il procedimento Lidija ha sempre avuto l’affido esclusivo dei figli. Con l’ultima sentenza di separazione emessa qualche settimana l’affido esclusivo è decaduto. Ricordo benissimo quella sera: Lidja non riusciva più a respirare, lì forse l’avevano già uccisa. Secondo il giudice alla luce dei fatti neanche Lidija era una buona mamma. Tutto ciò in base alle relazioni dei servizi sociali”, racconta Mondello. Servizi che seguivano la famiglia da almeno cinque anni. “I ragazzi andavano agli incontri con gli assistenti sociali sotto minaccia del padre, che li obbligava a registrare le conversazioni per controllarli: se sbagliavano, a casa pativano le pene dell’inferno. Sono fatti che mi hanno raccontato loro in questi giorni e che risalgono ad anni fa, quando erano dei bambini”. Poi l’appello alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che ha chiesto all’ispettorato di fare accertamenti. “Alla ministra Cartabia chiedo di prendere un impegno personale per colmare le lacune che ci sono nella rete. I giudici si avvalgono di relazioni fatte da persone terze. Dovrebbero avere un team di persone specializzate”.

La sentenza. Nelle relazioni i servizi sociali ritengono Lidija refrattaria a un percorso di supporto alla genitorialità, sottolineano che la donna ha sottaciuto l’inizio della relazione con il proprio datore di lavoro e il trasferimento presso l’abitazione dell’uomo. Una condotta – secondo i servizi – lesiva dei minori e precipitosa. Il tribunale cita il pm del tribunale dei Minori che tre anni prima, nel 2019, aveva avanzato la richiesta di decadenza della responsabilità genitoriale anche della madre, per aver eluso gli ordini impartiti circa la modalità degli incontri protetti padre figli. “Ma lei, come già spiegato al giudice, aveva agito così sotto le minacce di morte dell’uomo”, sottolinea Mondello. Nonostante ciò, il Tribunale di Vicenza ritiene Lidija genitore inidoneo nei confronti dei minori, che vengono affidati ai servizi sociali, con il collocamento presso la madre ma reintroducendo di fatto quell’uomo – già condannato per violenza – nelle loro vite.

Domani, 17 giugno, contestualmente al funerale di Lidja, è previsto un sit in fuori dal tribunale di Vicenza, organizzato dall’Associazione Movimentiamoci Vicenza e da Maternamente. Questo un estratto della lettre indirizzata al ministero della Giustizia: “Noi pretendiamo che chi ha consentito a Zlatan Vasjljevic di massacrare due donne si assuma le responsabilità delle proprie scelte, perché di scelte si è trattato. E consideriamo lo Stato italiano responsabile di non avere saputo proteggere le vittime. Lidjia e Gabriela sono vittime della legge italiana, che consente agli uomini violenti di usufruire di sconti di pena e sospensione condizionale della pena grazie alla frequenza di ridicoli e inefficaci percorsi di recupero nei C.A.M. E sono gli stessi responsabili di quei CAM che più volte hanno evidenziato gli scarsi risultati dei programmi”.

La situazione è drammatica. Serve una mobilitazione di tutte e tutti a partire dalle istituzioni”, commenta Valeria Valente, presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio. “È inaccettabile che ancora oggi si debba parlare di non riconoscimento della violenza nei tribunali. Quante donne devono essere ammazzate perché il sistema giudiziario si doti delle competenze necessarie a tutelare le vittime di questa mattanza?” si chiede Antonella Veltri, presidente Dire – Donne in rete contro la violenza.

Se una donna denuncia l’uomo violento deve essere protetta, se una donna denuncia il padre dei suoi figli deve essere creduta e tutelata – e con lei i suoi bambini – perché l’uomo violento non può mai essere ritenuto un buon padre.

***

Il Sole 24 Ore, con Alley Oop, è partner del progetto Never again, che ha come obiettivo quello di contrastare e combattere la vittimizzazione secondaria delle donne colpite dalla violenza.

NEVER AGAIN  è un progetto co-finanziato dal Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione europea (2014-2020), GA n. 101005539. I contenuti di questo articolo sono di esclusiva responsabilità degli Autori e non riflettono il punto di vista della Commissione europea.

na-colorlogo_ue

  • Anna Di salvo |

    Concordo con l’appello e lo sottoscrivo

  Post Precedente
Post Successivo