Bernardi: “Regole e stereotipi tagliano fuori le avvocate, servono interventi”

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Un intreccio di stereotipi e regole “tagliano fuori” molte avvocate, e anche altre professioniste donne, dai comparti di attività più remunerativi comportando nei fatti un “abuso di posizione dominante”. L’allarme e la richiesta di un intervento arriva dall’avvocata Sabrina Bernardi, socia della Rete per la Parità e presidente della associazione SconfiniAmo che ne parla in una intervista ad Alley Oop

Il ‘Rapporto sull’Avvocatura 2022’ a cura della Cassa Forense in collaborazione con il Censis approfondisce alcuni aspetti legati alla componente femminile della professione. La presenza delle avvocate è in crescita ma servono i redditi di due professioniste per sfiorare quello di un collega avvocato. Come valuta la fotografia che emerge da questo Rapporto?
E’ un rapporto maggiormente dettagliato rispetto allo scorso anno sul quale rilevai che la parola ‘donna’ era evidenziata una sola volta in circa 90 pagine. Quest’anno arriviamo a 9 pagine su circa 80. In queste 9 pagine si legge che le donne dal 1985 al 2021 dal 9% sono arrivate al 47% per cento degli avvocati in esercizio. Quello che non emerge chiaramente è che lo scorso anno avevamo raggiunto di fatto la parità e in questo momento invece ricomincia la discesa, le donne sono costrette ad abbandonare: situazione che avevo previsto perché i segnali che le donne stessero lasciando la professione erano già molto evidenti negli anni passati. Se è vero che la crisi pandemica ha travolto l’avvocatura tutta, i numeri ci dicono che lo scorso anno hanno abbandonato la professione 6 mila donne contro 2.700 uomini.

L'avvocata Sabriba Bernardi

L’avvocata Sabrina Bernardi

Sono anche gli effetti della crisi che stanno avendo un impatto maggiore sulla componente femminile?
Sì ma non solo. C’è un altro elemento su cui vorrei porre una riflessione: il 50% di divario reddituale tra avvocate ed avvocati è omogeneo su tutto il territorio nazionale. A differenza degli uomini, per le donne la stessa tendenza c’è ad Aosta come a Pescara, a Messina e a Roma. Un elemento da cui consegue che questo non è un problema legato alla contingenza economica, ma è un sistema che penalizza l’accesso delle donne alla clientela più remunerativa. Se si analizzano le tabelle del Censis, l’80% delle donne risponde sì alla percezione di questo divario e sul perché esista viene motivato certamente per il problema del lavoro di cura che pesa su tutte le donne lavoratrici, ma le avvocate lamentano in percentuale superiore che il divario economico dipende dalla ‘minore valorizzazione economica del proprio lavoro’ e, ancora più interessante, indicano che ‘esistono forme di discriminazione da parte della clientela’.

Nei rapporti degli anni precedenti, si era legato il minor reddito al fatto che le donne si occupano per loro scelta di ‘famiglia’, ‘locazioni’, ‘esecuzioni’, materie notoriamente meno remunerative. Ma non è una scelta, è una necessità, considerato che in altri ambiti molto più remunerativi vi sono dei limiti, degli ostacoli per poter accedere ad altra tipologia di committenza, che certamente contribuirebbe ad aumentare in maniera esponenziale i redditi delle avvocate. Come per le materie Stem c’è una discriminazione di fondo sul considerare che le donne possano eccellere o essere predisposte in materie come ingegneria e matematica. Sembrerebbe concretizzarsi lo spesso pregiudizio, come se scorresse sottotraccia il retropensiero che le donne avvocate non siano professionalmente valide quanto gli uomini in particolari ambiti professionali.

Io dico sempre che il codice civile è uno ed il codice di procedura civile anche, per me che sono una civilista, e pertanto non si può pensare che se mi occupo di una causa del valore di mille euro devo impiegare conoscenze tecniche ed un impegno professionale minore rispetto ad una causa da un milione di euro. La differenza è soltanto nella parcella che posso emettere, considerato che vanno redatte per valore. Infine un altro punto del Rapporto mi ha fatto riflettere su quanto questo sia un problema culturale, e aggiungo patriarcale: il rapporto ci indica che mentre per le donne la percezione della discriminazione è dell’80% delle intervistate, la percezione degli uomini rispetto a questo problema è del 30%.

Ritiene che questa sia una ‘fotografia’ che riguarda altre professioni?
Nelle riunioni con la Rete per la parità, organizzate grazie alla nostra presidente Rosanna Oliva de Conciliis, nelle quali abbiamo ascoltato le testimonianze di ingegnere ed architette socie, siamo giunte alle medesime avvilenti conclusioni: il gender gap è molto diffuso nelle libere professioni, molto più che nel lavoro subordinato femminile sia privato che pubblico, atteso che per la subordinazione ci sono norme che tutelano le lavoratrici a tutti i livelli. Il legislatore mette in campo degli sforzi per colmare la disparità retributiva ma non abbastanza nelle libere professioni. L’assenza di tutele in nostro favore ci lascia molto preoccupate perché le avvocate esercitano la professione anche e soprattutto in favore delle donne vittime di violenza, e non è la stessa cosa essere tutelati da un uomo o da una donna in determinati ambiti. Penalizzare le avvocate equivale a penalizzare due volte le donne, soprattutto le più fragili. E non solo nella mia professione. Ho una figlia che studia ingegneria e le piacerebbe occuparsi di urbanistica e le posso assicurare che lo sguardo di una donna ingegnere che disegna e crea un’idea di città non è lo stesso di un uomo. E’ necessario cambiare e integrare sguardo e prospettiva in tutti i settori.

Quali misure legislative possono essere adottate?
Ci sono misure che possono essere adottate e questo è il momento, perché il Pnrr impone la parità di genere nel lavoro quale requisito inderogabile e ce lo impone anche il raggiungimento dell’obiettivo 5 dello Sviluppo sostenibile 2030. Quindi questo è il momento per esempio per apportare delle modifiche a leggi che già esistono e a ‘costo zero’ per salvare le avvocate; non c’è bisogno di mettere in bilancio ingenti somme, come per le reti e le infrastrutture di prossimità, comunque necessarie. Intanto sarebbe auspicabile un controllo da parte di Anac e Antitrust per monitorare le modalità degli affidamenti legali esterni delle società quotate in Borsa o degli enti pubblici e rimuovere gli odiosi ‘ostacoli’ di accesso oggi presenti. Il Codice degli appalti prevede che gli incarichi legali esterni delle grandi aziende, quali quelle del comparto assicurativo, bancario, trasporti ecc., siano esclusi dalle gare pubbliche, ed a tale scopo sono stati creati degli appositi elenchi pubblici. Sembrerebbe tutto trasparente ma il problema è nei requisiti: se per essere ammessi all’elenco viene richiesto come per talune aziende un fatturato che superi il milione di euro o si necessita un elevato numero di cause trattate nella specifica materia del committente nell’arco di un anno, oppure si chiede una polizza assicurativa per coprire danni fino a 5 milioni di euro (reddito medio avvocate in Italia 23.000 euro, pertanto impossibile anche sottoscriverla) ne va ‘de plano’ che una professionista non potrà mai avere tali requisiti, sperare di poter essere inserita negli appositi albi e successivamente scelta per un incarico. E quindi esiste una barriera in accesso e una cooptazione continua degli stessi studi. Se poi in quei soliti grandi studi legali vi lavorano come praticanti o avvocate donne che scrivono atti e tengono le udienze vuol dire che queste capacità le donne le hanno, ma vivono da subalterne. Manca la possibilità di accesso nei settori dove si percepiscono per la nostra professione maggiori compensi ed è necessario riportare in equilibrio la bilancia: se esiste una torta, quella va divisa, non servono investimenti”.

Come si può intervenire su questo?
Ad esempio all’articolo 4 del Codice degli appalti, che segue le linee guida dell’Anac, si potrebbe inserire il rispetto oltre che dei principi di economicità, efficacia, imparzialità anche di quello della parità di genere. Se in un anno un grande Ente affida 100 incarichi esterni, dovrebbe garantirne non dico il 50% ma almeno il 30 per cento alle donne. Sull’esempio della legge Golfo–Mosca che ha colmato il gap nei Cda delle società quotate in Borsa, sebbene non ancora nelle posizioni apicali. Si potrebbe anche prevedere che un giovane laureato o laureata possano fare dei corsi di formazione all’interno degli Enti committenti per acquisire esperienza nel settore di riferimento. Ed anche integrare il Codice delle Pari Opportunità, recentemente modificato, che ha introdotto premialità fiscali e la certificazione di genere per le aziende che assumono donne. Nel medesimo solco si può prevedere la premialità alle aziende che volontariamente affidino incarichi a professioniste. C’è bisogno di un lavoro serio e costante che consenta alle donne e ai giovani di poter accedere a settori ad oggi esclusi ingiustamente dalla loro portata.

Voi parlate di ‘abuso di posizione dominante’ cosa intendete?
L’abuso di posizione dominante è una nostra considerazione: si concretizza di fatto per le ragioni che le ho illustrato, vi sono ostacoli insormontabili in accesso e non viene rispettata la parità di trattamento nell’affidamento degli incarichi. E non se ne comprende la ragione se non in una scelta culturale discriminante nei confronti delle professioniste. All’articolo 4 del Codice degli appalti, per esempio, questo concetto di parità di trattamento deve essere declinato nel senso che tutti gli operatori economici devono trovarsi in una situazione di uguaglianza formale e sostanziale. Molte professioniste, con strutture organizzate ed efficienti, con segretarie e praticanti producono e possono produrre reddito e creare posti di lavoro, quanto i colleghi. E’ necessario tutelare le lavoratrici subordinate ma anche altre figure professionali femminili che possano muovere l’economia: perché non possono essere le avvocate?

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