Dal greco ergo, lavoro, e phobos, paura, l’ergofobia indica una paura eccessiva e persistente verso il proprio lavoro e i compiti e impegni quotidiani ad esso correlati.
Secondo lo psichiatra e professore Michael Linden, l’ergofobia può essere classificata come un disturbo d’ansia. Ma esattamente, cosa si intende per ansia? Ansia, stress e burnout sono infatti termini entrati nell’immaginario comune, con la conseguenza di essere spesso confusi e svuotati di senso. L’ansia è riconducibile a una paura anticipatoria legata a qualcosa che, forse, potrà accadere. È dunque alimentata da preoccupazioni declinate al futuro e da un certo livello di incertezza. È in qualche modo una forma di controllo rispetto alle circostanze: l’essere umano, infatti, non ama non sapere. Motivo per cui immagina ciò che potrà accadere. Il più delle volte, figurandosi scenari tutt’altro che positivi. Parafrasando Mark Twain, si può senz’altro affermare che gran parte della propria vita viene spesa a preoccuparsi di cose che poi non avvengono.
Da questo punto di vista, l’ergofobia non è da meno. E sebbene le persone che la sperimentano si rendano spesso conto dell’irrazionalità dei propri timori, ciò non le protegge da avere ansie sproporzionate rispetto al contesto o agli stimoli che si trovano ad affrontare. Questo stato di allarme e attivazione costante può portare a disturbi psicosomatici, come cefalee, emicranie, coliti, gastriti. Basti pensare a quanti lavoratori e lavoratrici, anche in assenza di ergofobia, si portano a casa il mal di testa dall’ufficio o avvertono bruciore di stomaco proprio il lunedì mattina.
Nel caso di eccessiva ansia verso il proprio lavoro è poi possibile che ai sintomi psicosomatici si accompagnino sensazioni di panico o ansia relazionale, generata dal pensiero dell’interazione con colleghi e colleghe. Può infine accadere, come ricordato da Linden, che si sperimenti un timore paranoico di essere vittima di mobbing, anche in assenza di effettive dimostrazioni di ciò. Queste condizioni, portano le persone ergofobiche ad assentarsi frequentemente dal proprio lavoro, richiedere permessi e, alle volte, addirittura, a ritirarsi e dare le proprie dimissioni. In Italia, secondo l’annuale ricerca Mindwork-BVA Doxa, una persona under 34 su due lascia il proprio lavoro proprio per motivi legati a malessere psicologico.
In un certo qual modo, l’ergofobia può dunque ricordare il ritiro sociale, tipico dell’adolescenza. Esso viene definito dall’Istituto Minotauro come:
“il senso di solitudine e d’inefficacia che può sfociare nell’abbandono del percorso scolastico e nell’allontanamento dall’intero mondo sociale. Il ritiro è accompagnato da vissuti di vergogna, impotenza e confusione, e può portare ad un graduale disinvestimento nelle proprie risorse e nelle relazioni interpersonali.”
Alla luce di questa definizione, emerge una certa assonanza tra questi diversi vissuti. Prima a scuola e poi nella propria vita lavorativa, si avverte di non farcela. Ma da cosa deriva questa paura così persistente nei confronti del proprio lavoro? Associata in letteratura al burnout, sembra che l’ergofobia possa in qualche modo essere la risultante di ansie e paure “minori”, nonché di stress accumulato e non adeguatamente gestito. È considerata una forma di fobia sociale o ansia da prestazione, derivante da un persistente senso di pressione e di richiesta di aspettative vissute come eccessive.
Per gestirla, è dunque necessario agire tanto sul singolo, quanto sull’organizzazione.
Se, come persona, si percepisce ansia eccessiva e continuativa correlata al proprio lavoro, potrebbe essere utile chiedere supporto a un professionista. Molto spesso, infatti, l’ansia è presente ma non riconducibile ad aspetti precisi. L’individuo si sente quindi in preda allo sconforto senza conoscerne le reali ragioni. L’aiuto di uno psicologo può consentire di far chiarezza e individuare strategie utili per tornare a stare bene. Passaggio essenziale, infatti, è comprendere quanto tale paura sia irrazionale e quanto eventualmente correlata ad aspetti legati al proprio lavoro.
Rispetto a quest’ultimo punto, le aziende hanno un ruolo essenziale: quello di rendere il proprio ambiente sicuro da un punto di vista psicologico. In tal senso, non si tratta però solamente di offrire alle persone la possibilità di aprirsi, condividere idee, vissuti e preoccupazioni, con la certezza di vederli accorti. Vuol dire anche creare delle condizioni di lavoro – a partire dalla gestione del tempo e dei compiti – che sia rispettosa della dimensione umana. Le richieste e le aspettative da parte dell’organizzazione devono necessariamente essere ragionevoli per poter proteggere da vissuti negativi di ansia e stress e garantire così il benessere psicologico di chi ne fa parte. Solo quando le persone stanno bene, infatti, lavorano meglio.
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