Volodymyr Zelensky è dall’inizio della guerra Ucraina, suo malgrado, protagonista indiscusso di media, social media, della politica e dell’informazione di tutto il mondo. E quando si accosta “protagonista” a “Zelelnsky” non lo si fa a caso. Prima della sua carriera politica è stato un attore molto famoso, protagonista (appunto) della serie di satira politica Sluha Narodu, Servitore del Popolo, dove interpretava un insegnante che diventa presidente dell’Ucraina. Quando la realtà più che superare, si adatta alla fantasia.
Anche grazie a questo suo “talento del passato”, la comunicazione del Presidente ucraino durante queste settimane atroci è stata molto efficace, quasi iconica oserei dire, sia all’interno che all’esterno del suo Paese.
Dall’inizio dell’aggressione russa ha abbandonato giacca e cravatta e si mostra sempre in t-shirt, golf, pantaloni, maglioni, con colori militari. Espone una fisicità da uomo forte, combattivo, non muscoloso, ma massiccio, giovane, pronto ad affrontare il nemico. Racconta un Paese in guerra da combattente tra i combattenti, resistente tra i resistenti. E lo fa con video, spot, videomessaggi, dal suo ufficio presidenziale, bunker anonimi, dalle strade martoriate di Kiev, dagli ospedali occupati dai feriti, utilizzando qualunque canale, rete o piattaforma social.
Ma c’è un aspetto che più di altri sta caratterizzando il suo modo di comunicare: i discorsi che sta tenendo davanti ai governi e ai parlamenti di tutto il mondo.
Attraverso una narrazione intensa ed emotiva – sempre collegato via web da una location anonima col suo outfit da guerriglia – il presidente ucraino punta a suscitare nel suo interlocutore immedesimazione col suo popolo più che compassione. E lo fa utilizzando un linguaggio condiviso ed evocativo, che studia e modula a seconda del Paese a cui si rivolge.
Qualche esempio? Parlando al Congresso statunitense ha detto «da noi è l’11 settembre ogni giorno»; alla Camera dei Comuni inglese cita Churchill «Combatteremo a ogni costo»; al Parlamento polacco ricorda le parole di Papa Wojtyla «Insieme lotteremo e creeremo la nostra libertà»; al Bundestag di Berlino «A ogni bomba si alza un muro in Europa». L’obiettivo è chiaro, oltre che legittimo: convincere la comunità internazionale ad intervenire per aiutare l’Ucraina. Eppure, anche questa comunicazione che fino ad ora si è dimostrata così vincente, ha incontrato uno stop.
L’inciampo israeliano
20 marzo, Zelensky (cha ha origini ebree) parlando alla Knesset, il parlamento israeliano, dice: «Stanno utilizzando di nuovo queste parole, “la soluzione finale”, in relazione a noi, alla nazione ucraina […] assomiglia a quello che i nazisti fecero al popolo ebraico durante la Shoah». A differenza delle altre volte, dopo gli applausi, il sentimento dei parlamentari non è stato quello dell’immedesimazione e dell’empatia, ma dell’irritazione. Perché, cosa non ha funzionato a questo giro?
Quello che ha inceppato il meccanismo è che la Shoah è un evento storicamente enorme, unico e irripetibile nella sua atrocità. Imparagonabile ad altri eventi, per l’Occidente, ma soprattutto per il popolo ebraico. Ecco dunque il perché dell’irritazione di Israele, perché proprio quel paragone ha in qualche modo portato alla luce la vena camaleontica un po’ troppo “attoriale” e spregiudicata con cui Zelensky (o chi per lui) prepara i suoi discorsi, studiando similitudini d’effetto. Detto in breve, il presidente ha perso di autenticità, mostrandosi più strumentale che sincero.
Il punto di pressione
Sia chiaro, da capo di un Paese sotto attacco, le intenzioni di Zelensky sono più che legittime: spingere la comunità internazionale ad intervenire in aiuto dell’Ucraina, sia militarmente, sia con la no-fly zone. Ma l’atteggiamento con cui lo chiede è in parte autoritario: il richiamo è al “dovere” di intervenire, alla colpa e alla responsabilità di non farlo, perché per Zelensky l’Ucraina può essere salvata solo secondo la sua strategia, e va fatto a qualunque costo.
Il punto è proprio quel “qualunque costo”, che implicherebbe una terza guerra mondiale che né l’Europa, né il resto del mondo sono disposti a vivere. Ed è proprio sull’onda di questa consapevolezza, che forse la comunicazione di Zelensky si è fatta più insistente, e per alcuni prepotente e invasiva, verso i governi e nei confronti dell’opinione pubblica mondiale. Ma l’effetto di questa invasività è stato e sta diventando esattamente l’opposto di quello desiderato.
Zelensky ha raggiunto, o si sta molto velocemente avvicinando, a quello che nel marketing viene chiamato “punto di pressione”. Quando la quantità di comunicazione è eccessiva e arriva a saturare gli stimoli dei consumatori, i messaggi in essa contenuti diventano troppo oppressivi, provocando un effetto di resistenza e allontanamento, e non più di avvicinamento.
Questo è ben verificabile da ognuno di noi nella pubblicità. Prendiamo il caso di una comunicazione molto efficace volta a sensibilizzare e generare consapevolezza su una malattia. Prima si avrà una reazione empatica e di coinvolgimento, che spingerà molti anche a interessarsi, o impegnarsi attivamente alla causa. Se la comunicazione però diventerà troppo insistente e ripetitiva nella sua volontà di persuadere, il destinatario la percepirà come non autentica, invasiva e disturbante. A quel punto il rifiuto avverrà allora sia verso il suo contenuto (perché l’immedesimazione diventa fonte di angoscia, “potrebbe capitare a me”), che verso la sua modalità (la “prepotenza” con cui vuole farmi star male perché mi occupi di quella cosa).
Ecco, forse per molti sarà difficile da ammettere in modo così esplicito, ma è quello che già sta accadendo e sempre di più accadrà con la comunicazione di Zelensky e con Zelensky stesso.
Il presidente ucraino è un abilissimo comunicatore. E’ quello che coniando un nuovo termine definirei un “emotivatore”: un leader cioè in grado di suscitare e allenare le emozioni di chi lo ascolta – sia esso capo di Stato o cittadino – per poi immetterle in un circolo narrativo di immedesimazione dove i messaggi arrivano amplificati. Ma proprio questa tecnica ora gli sta giocando contro. Perché il messaggio che “pretende” di emozionare, finisce solo per allontanare. Perché non c’è niente di meglio che avere l’impressione di essere in qualche modo manipolati da un abile comunicatore (meglio se ex attore), per giustificare il proprio umano egoismo del pensare “prima per sè”.
Il 22 marzo Zelensky ha parlato anche al Parlamento Italiano. «Immaginate Genova o Roma bruciare sotto le bombe come Mariupol» ha affermato. Se fossi stato il suo ghost writer probabilmente gli avrei detto: “Presidente, l’Italia è uno dei Paesi che più al mondo ha sofferto in questi anni per la pandemia. Il primo ad averla affrontata in Europa con decine di migliaia di morti. E non è facendogli immaginare altro dolore a casa loro, che li porteremo vicino al dolore di casa nostra“.
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