“Lo spazio delle donne”, lo spazio di pace e di ponti su cui scommettere

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“L’assenza delle donne e delle autrici dalla considerazione e dalle pratiche di riconoscimento pubblico e duraturo è una figura strana ed enorme davanti agli occhi di tutti, ma di cui non si discute in maniera collettiva; proprio come se si trattasse di un grosso elefante, o per meglio dire un’elefantessa, intrappolata in una stanza dove si continua a conversare amabilmente, fingendo di non vedere”.

Daniela Brogi, docente di letteratura italiana contemporanea all’Università per stranieri di Siena, parte da qui per raccontare “Lo spazio delle donne”, appena edito da Einaudi. E già l’immagine di questo elefante nella stanza smuove associazioni suggestive. Quante volte siamo state noi quell’elefante? In occasioni pubbliche e private, alle riunioni di lavoro, nelle nostre stesse case, durante una cena, quante volte ci siamo sentite ingombranti eppure invisibili, scomparse nel discorso di chi continuava a considerarci Altro? L’elefante rimanda anche a un testo sacro per il femminismo degli anni Settanta: “Rosaconfetto”, una delle storie che nel 1975 Adela Turin e Nella Bosnia crearono per l’indimenticabile esperienza editoriale “Dalla parte delle bambine”, ripubblicato da Motta junior nel 2009 (“Rosaconfetto e le altre storie”). Rosaconfetto è un’elefantina grigia costretta, come tutte le sue simili, a ingozzarsi di anemoni e peonie per diventare rosa brillante, al pari di sua madre e delle altre adulte, e a crescere dentro un recinto, guardando i coetanei maschi liberi di mangiare ciò che vogliono, di sguazzare nel fiume e di scorrazzare nei prati. Sarà la prima a spezzare la schiavitù, ottenendo per tutte la possibilità di uscire dal recinto e di crescere senza catene.

Per restare nella metafora, l’operazione Brogi è l’osservazione della savana attraverso i suoi recinti, la collocazione dell’elefante (la donna e la sua assenza) finalmente al centro di cinque spazi, e in relazione con gli altri: quello storico, lo spazio come territorio e condizione di creatività, lo spazio come posto abitato da stereotipi sessisti che saranno ridiscussi, lo spazio come stile ed esperienza e, infine, lo spazio alle donne come campo di messa alla prova della contemporaneità.

Ne deriva un viaggio alla scoperta del “Soggetto Imprevisto”, l’intuizione formidabile di Carla Lonzi nel finale di “Sputiamo su Hegel” (“Solo chi non è nella dialettica servo-padrone può introdurre nel mondo il Soggetto Imprevisto”, scrisse), un girovagare colto e attento che ci permette di seguire le donne, sottratte al ruolo storico di oggetto, nelle loro impreviste possibilità di vita. Nei giardini segreti, dentro i “pezzetti di giardino mio” (Sibilla Aleramo), la “stanza tutta per sé” di Virginia Woolf, “lo studio” di Alice Munro, la “stanza terrena quasi povera” di Grazia Deledda. Ma anche nei mondi inabissati “lasciati fuori all’inquadratura della memoria ufficiale”, annota Brogi, o “nell’interstizio”, la smarginatura di Elena Ferrante, oppure, ancora, nelle lunghe e frequenti liste dell’assenza, gli elenchi dai quali le donne sono escluse, o ammesse soltanto grazie a trucchi e stratagemmi. Sempre con il riflettore acceso sulla mappa complessiva. Soltanto così si capisce perché il punto da cui si sceglie di parlare (per le donne spesso il margine, come ci ha insegnato bell hooks) non è necessariamente contrapposto o separato, ma è spesso “un territorio in cui chi dice ‘io’ sta cercando di dire anche ‘noi'”. Solamente attraverso questa lente che allarga la visuale fino ai bordi si comprende anche perché Brogi invita a costruire, come avviene nel cinema, “una dialettica tra campo e fuori campo, tra visibile e invisibile, che dia espressione al fuori campo attivo”.

L’esercizio non è tirare fuori le donne dall’oblio a una a una, come le perle da una collana. L’esercizio di complessità è tirare fuori la collana intera e agganciarla a tutte le altre, salvare le genealogie femminili dalla tabula rasa, che resta, come nelle vicende di insediamento dinastico, uno degli strumenti più efficaci di annullamento delle identità. Non è un caso che altre scrittrici siano instancabilmente impegnate nella tessitura delle genealogie delle donne: si pensi, per fare un esempio recente, a Sandra Petrignani in Lessico femminile, per sua stessa ammissione una ricerca del “bandolo del nostro comune sentire femminile”.

“Comune” è aggettivo chiave. L’altro messaggio in bottiglia di Brogi riguarda, infatti, la necessità di andare oltre il riconoscimento delle outsider, la consegna dell’immortalità riservata alle donne soltanto a condizione di “una stranezza di vita e di temperamento, che di fatto le ricollocava comunque fuori dalla storia”. Stranezza che, peraltro, spesso portava a una rinarrazione biografica centrata su aspetti delle loro esistenze più conformi a un sistema patriarcale. Lo dimostra il caso di Cleopatra o quello di Sibilla Aleramo: l’immagine di campionesse di seduzione e mangiauomini ha finito con il prevalere su quella delle donne coltissime e brillanti che furono. L’ampio ricorso a formule confidenziali, come l’uso del solo nome proprio (ancora molto in voga), appellativi riduttivi, battute misogine è parte della strategia: svuotare di significato e serietà, sottolinea Brogi, “il modo in cui (le donne, ndr) avevano scelto di appartenere al mondo: il loro impegno, le loro esperienze e reazioni intellettuali”. Il filo rosso che le tiene insieme, che rende comune ciò che appare straordinario.

Anche i femminismi, in questa prospettiva, assumono una luce diversa, quella di “esperienze storiche internazionali, variamente articolate, che vanno capite e studiate dentro il mondo di eventi di cui fanno parte, anziché dentro le immagini riduttive in cui sono state categorizzate e oscurate”. È qui, nell’ambito di questa riflessione, che Brogi cita Lonzi esprimendo lo stupore di molte di noi: come è potuto accadere che una donna del suo calibro sia quasi sconosciuta nelle scuole e nelle università italiane? Potrebbe mai succedere che qualcuno si vanti di ignorare il Manifesto del Futurismo, l’esperienza del Futurismo e si dichiari fieramente anti-futurista? Questo avviene con il femminismo. Eppure il pensiero critico contenuto nel Manifesto di Rivolta femminile ha prodotto una trasformazione più radicale e irreversibile di quella del Manifesto di Marinetti, se uno storico come Eric Hobsbawm ha scritto che la rivoluzione femminile è stata l’unica rivoluzione riuscita del Novecento.

Per Brogi smetterla di avere paura del femminismo e riconoscerlo come esperienza storica aiuta a sfatare molti altri miti di devianza ben collaudati sulle donne, funzionali al controllo sociale sulla loro vita e sulla loro memoria. Innanzitutto il grande mito divisivo del merito (e della competenza), elemento fondante della “retorica del dominio”, “la parola chiave con cui le donne sono state più spaventate (anche dalle proprie simili), imbambolate, e tenute lontane dall’idea molto concreta per cui l’uguaglianza conta proprio in senso materiale e numerico, se si vogliono raggiungere risultati alti”. Per non scordare le coordinate entro le quali affrontare la questione depurandola dalla sua strumentalizzazione sessista, Brogi elenca la cronologia dal 1946 al 1996, dal diritto di voto delle donne all’anno in cui lo stupro è diventato un crimine contro la persona e non contro la morale pubblica. È questa timeline lo spazio “dove portare l’eloquenza vuota e tautologica del maschilismo benpensante e l’assunto incardinato ad essa, per cui un canone tutto fatto da autori maschili parla solo di se stesso”. È il modo per ricordare la terra devastata dove per secoli le donne non hanno potuto studiare, uscire da sole, avere stanze tutte per sé. La strada per opporre la storia alle semplificazioni: il merito è parola equa in un contesto di parità e reciprocità, altrimenti è altro fumo negli occhi per far apparire “naturali” e neutrali le disuguaglianze. Per cancellarle. “La disparità – scrive Brogi – non passa solo dai numeri, ma dalle gerarchie, e dai livelli di attenzione che si decide di riconoscere alla parola altrui, assegnandole autorevolezza”.

L’esortazione a reimpossessarsi di una vicenda pubblica collettiva e di un orgoglio sociale, contro un immaginario che ci ha voluto divise, eccentriche, quando non apertamente mostruose, è indispensabile per reagire a quella che Brogi definisce “cultura dello scoraggiamento sistemico”. Un impasto di pregiudizi e distorsioni, teso a ricondurre a incapacità personale (demerito) condizioni legate invece a un sistema storico di ingiustizie e asimmetrie oppure a rappresentare la donna che pensa in modo ridicolo e sprezzante. Innumerevoli gli esempi che Brogi, esperta di forme di narrazione nella letteratura e nel cinema, utilizza per descrivere questa cultura e le sue scorie, che a lungo abbiamo interiorizzato. Come l’insistenza sulle ambivalenze e le conflittualità del rapporto madre-figlia, rispetto alla grandezza epica del  rapporto padre-figlio, eretto a pilastro universale della civiltà occidentale, o l’esaltazione della potenza del genio maschile rispetto al topos della stupidità femminile, con la sua schiera di servette, attricette, maestrine, signorine che hanno popolato libri, film e commedie.

La via d’uscita c’è. Nel finale de “Le città invisibili”, un’altra mappa di luoghi possibili che sono anche e soprattutto itinerari della mente, Italo Calvino fa dire a Kublai Khan che l’inferno è ciò che formiamo stando insieme e che c’è un unico segreto per affrontarlo senza stare male: “Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”. Il fare spazio come scatto vitale, la metamorfosi di un punto cieco in punto di ricostruzione, l’anello che non tiene sovvertito in trama di un racconto nuovo. Questo è anche lo spazio delle donne, dove si può stare insieme mescolando culture e generazioni e dove si può pensare le identità altre. Uno spazio di ponti e connessioni, di mediazioni e di reciprocità. Uno spazio di pace. Una “Danza delle ombre felici”. Il vero nuovo campo largo su cui scommettere. Leggere per credere.

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Titolo: “Lo spazio delle donne”
Autrice: Daniela Brogi
Editore: Einaudi
Anno: 2022
Prezzo: 12 euro

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