Da psicologa ho sempre dovuto affrontare tutta una serie di pregiudizi e stereotipi legati alla mia professione e, parallelamente, fare i conti con persone che pensavano, in virtù di non verificate doti naturali, di poter svolgere il mio lavoro per vocazione.
“Ma quindi puoi leggermi nella mente?”: un grande classico. Per quanto assurdo, chiunque sia laureato in psicologia se l’è sentito dire almeno una volta nella vita. “Se ti racconto un sogno, me lo interpreti?” Sono psicologa del lavoro: è come chiedere a un ingegnere informatico se può progettare un ponte. “Non sono mica matto.” Anche questo, un evergreen.
Per non parlare di chi mi ha raccontato di come anche lui o lei avrebbe voluto studiare psicologia. In Italia ci sono più di 100.000 psicologi. Se si fossero iscritte alla facoltà di Psicologia tutte le persone che mi hanno confessato che avrebbero voluto farlo ma che hanno poi scelto a malincuore altre strade, la mia professione sarebbe più numerosa di medici e avvocati messi insieme. Una ragione di tutto ciò, risiede nel fatto che la psicologia studia quanto di più umano esista: la mente e il comportamento delle persone. Approfondendo gli studi psicologici, ci si comprende. E le persone hanno un disperato bisogno di capirsi.
Non finisce però qui. Come psicologa del lavoro, mi ritrovo ogni giorno a parlare di psicologia alle persone in azienda. Che siano responsabili HR, manager o professionisti con ruoli diversi, mi ritrovo sempre a dover fare chiarezza, con l’obiettivo di smontare pregiudizi e credenze. Ecco allora i 3 falsi miti in cui mi imbatto più spesso.
1. Sul lavoro non si parla della propria vita privata
C’è ancora il retaggio che fa credere che, entrati in azienda, si debba indossare il proprio ruolo, dimenticandosi della propria autenticità, chiusa fuori dalla porta. Gli ultimi due anni di lavoro da remoto – che quasi sempre è stato da casa – hanno contribuito a smontare questo mito. Ci siamo visti attraverso le webcam vulnerabili, a contatto con animali e figli, tra cucine, salotti e camere da letto. L’umanità, finalmente, è entrata a lavoro.
Tuttavia, siamo ancora lontani dal comprendere davvero che non siamo compartimenti stagni – vita familiare o personale da una parte e lavoro dall’altra – ma esseri complessi fatti di infinite sfaccettature. E che l’azienda attingerebbe a un valore enorme se sapesse mettere a sistema l’essenza di ognuno. Tutto ciò, porta a credere che la psicologia nelle organizzazioni serva solo a parlare di lavoro. Eppure, dietro la difficoltà nella relazione con il proprio capo o nella gestione della propria leadership, si nascondono insicurezze, vissuti e conflitti che non possono di certo esaurirsi nel contesto professionale. Siamo sfere, non spicchi. E la psicologia ce lo insegna: stiamo bene solo quando riusciamo a integrare le diverse parti di noi.
2. In azienda funziona il coaching
Siamo lontani dal vedere affermata la presenza di psicoterapeuti in azienda. Sempre che le organizzazioni non siano luoghi per loro. I motivi sono diversi: stigma, il falso mito di cui al punto 1, pregiudizi legati alla terapia, timore di scoperchiare il vaso di Pandora. La psicoterapia in azienda viene dai più percepita come eccessiva, inopportuna, scomoda. Molto più spazio è concesso al supporto psicologico o al counseling, ancora più spazio al coaching. Presentato spesso come la panacea a tutti i mali, assume anche formule one-session, che prevedono un singolo incontro che si propone di motivare, supportare e far crescere.
A tal proposito, trovo efficace una riflessione di Anna Zanardi, International Board Advisor e psicoterapeuta EAP (European Association for Psychotherapy). “Un altro falso mito che è che counseling, coaching e psicoterapia si possano sovrapporre e farsi concorrenza a vicenda. Non è così e non lo è stato alla loro nascita, quando i confini fra i tre approcci erano molto ben chiari e definiti. Conoscere se stessi e capire come cambiare i comportamenti rendendoli più’ funzionali al contesto organizzativo richiede molta motivazione; bisogna decidere se lo si vuol fare in maniera funzionale unicamente all’organizzazione (coaching), al proprio stato di qualità personal-professionale (counseling) o andando a scavare in maniera più profonda e sistematica nella propria anima (psicoterapia). In ognuno dei tre casi non si puo’ pensare di farlo in una manciata di minuti.”
3. La psicologia cura, ma io sto bene
Il terzo falso mito che mi trovo più spesso a smontare è quello che la psicologia sia utile solo a chi sta male o a chi è, nel migliore dei casi, in difficoltà. Falso. La mia professione, infatti, previene, educa, consapevolizza, sensibilizza. Non è necessario fare esperienza di malessere emotivo, per affidarsi a uno psicologo o a uno psicoterapeuta. Lo si può fare anche quando si sta bene: per potenziare il proprio benessere, per conoscersi meglio o anche per curiosità.
Anche in azienda, la logica è la stessa. La psicologia non serve solo a chi ha difficoltà con il proprio capo, a chi non si sente motivato, a chi subisce mobbing o sente di essere in burnout. È infatti essenziale per mantenere un clima positivo, inclusivo e sano. Indispensabile, per conservare il proprio equilibrio psicofisico, per prevenire conflitti, assenteismo, turnover. La psicologia cura, certo. Ma promuove anche la salute e il benessere delle persone e delle organizzazioni.
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