Quando smetteremo di parlare di diversità

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A un certo punto smetteremo di parlare di diversità. Quando di qualcosa si parla molto, è chiaro che è tutt’altro che risolta. Se ne può parlare per provare a risolverla, o se ne può parlare pensando che parlarne sia parte della soluzione. Siccome si sa che il tema della diversità è anche fortemente culturale, c’è un tacito assenso intorno all’idea che parlarne aiuti a risolverlo. Ma spesso, troppo spesso, ci si accontenta di parlarne, e allora farlo diventa una scappatoia, soprattutto se si pensa che basti far parlare le minoranze (i “diversi”) perché emergano le soluzioni.

Ecco l’elefante nella stanza: i diversi non conoscono (né sono) necessariamente la soluzione.

I diversi sono diversi loro malgrado e la maggior parte del tempo preferirebbero non doverci nemmeno pensare. Da qui l’idiosincrasia per le quote rosa, viste come la forzatura a valle di un problema che resta irrisolto a monte. Le minoranze sono già abbastanza affaticate dal doversi mimetizzare con l’esistente per avere anche la forza di farsi promotrici di un cambiamento. Eppure questo ci si aspetta da loro. Che si facciano avanti e portino soluzioni a un problema che, dopotutto, è loro. Oppure no?

Guardiamo all’altra metà della mela. Se c’è un problema di inclusione è perché esiste un club di maggioranza che nel tempo ha fatto le regole a propria misura, incastonandole al punto che nemmeno il progresso tecnologico riesce a superarle. Ci sono molte, moltissime diversità diverse e un’unica “identità” che le definisce tali per differenza: di quella però si parla poco o distrattamente. Identità, dal latino identitas, derivato da idem (“stessa cosa”): secondo wikipedia, è un termine e un principio filosofico che genericamente indica l’eguaglianza di un oggetto rispetto a sé stesso. Ogni volta che un tono di voce, uno stile comunicativo, un gesto, un’apparenza, risultano difformi: vuol dire che una diversità emerge dal contrasto con un’identità.

Per semplicità, chiamiamola “uniforme”. L’uniforme, come gli abiti dell’imperatore, è così onnipresente da risultare invisibile. La sua invisibilità è la sua forza. Si nasconde nell’evidenza, è impossibile stanarla. E’ la “normalità”. E’ quella somiglianza che facilita il non farsi notare (“Vesti bene e noteranno la donna” diceva Melanie Griffith nel film “Una donna in carriera”): l’abito giusto consente di dirigere tutta l’attenzione sull’essenza, sia per chi deve mostrare dei risultati che per chi li valuta.

La minaccia dello stereotipo ha invece proprio l’effetto opposto: la sottile e costante sensazione di star esprimendo caratteristiche difformi mette in allarme chi la prova, peggiorandone la performance. Ma, ahimè, non basta; anche l’essenza, e non solo la forma, è vittima del predominio dell’uniforme. Anche nella sostanza del pensiero, anche nella scienza, anche nelle nobili arti che hanno fatto il mondo così come lo vediamo oggi si esprime la voce di un’identità di maggioranza. E’ inevitabile: tutto ciò che ha voce e la conoscenza stessa esprimono analogie, si basano su stereotipi e quindi su una selezione di informazioni, una scelta che viene fatta sulla base di un’identità.

Tutte le narrazioni incorporano bias.

Di che cosa parliamo, quindi, quando parliamo di diversità? Che cosa andiamo cercando? Il modo più diretto per cercarla è proprio per differenza: descrivendo a noi stessi e agli altri qual è l’identità che oggi la nostra società dà per scontata. Che cosa è considerato normale, “regolare”? Quello è ciò che deve essere messo in discussione e fare spazio perché l’inclusione non avvenga per assimilazione, ma per composizione di differenze. Quali toni di voce possono cambiare, quali aspetti esteriori, quali colori, quali abitudini, quali gestualità, quali narrazioni? Basta fare un giro ad una mostra d’arte del ‘900: ci sono quadri che ritraggono persone in ufficio, ed erano vestite esattamente come oggi. C’erano già le cravatte, già gli abiti scuri, già le scrivanie a definire un’identità dominante: mancavano solo i computer. Il modello della maggioranza oggi però è fragile anche perché non ha avuto modo di mettersi in discussione negli ultimi 100 anni e questo rende molto difficile evolvere.

E’ su questo argomento che potremmo fare dei convegni. Sullo zoccolo duro, sempre più piccolo ma non meno potente, di chi non è diverso. E’ a loro che andrebbe chiesto di proporre cambiamenti, anche perché sarebbero i primi a beneficiare del progresso economico e sociale che una maggiore ricchezza di identità porterebbe. Inoltre, la rendita di posizione che deriva dall’appartenere al modello di maggioranza dà una dose di extra potere ed extra risorse che potrebbero essere impiegate nello scardinare barriere invisibili ai più, allenando la vista e l’agilità mentale nel nominare a una a una tutte le apparenti normalità che creano dissonanze. Una scala, un ostacolo alla deambulazione, una riunione fuori orario, una facile battuta, un’interruzione, una banalità, una scorciatoia: chi appartiene a una minoranza le sente sotto pelle anche quando non vorrebbe e ne subisce uno stress che spesso diventa cronico nella sua invisibilità. Per chi appartiene alla maggioranza sarebbe invece un alfabeto tutto da imparare, con il doppio beneficio di prendere i pregiudizi alle spalle e intanto reimparare ad imparare.

L’oggetto del dibattito potrebbe quindi spostarsi dalla diversità all’identità. Identità che definisce e quindi esclude, che rende forti oppure fragili: l’identità che ci sentiamo autorizzati a mostrare e quella che invece, ognuno nella propria dimensione diversa e privata, nasconde. Sono tutte positive, le identità prese singolarmente: è la loro somma in un’unica persona che la mette dalla parte giusta o sbagliata del tavolo. Se partiamo da quelle che ci avvicinano, rendendoci simili tra di noi, ci sarà più facile fare spazio alle altre, a tutte le voci nuove e sorprendenti che “suonano male” solo perché le ascoltiamo poco. Funzionerà, soprattutto se questo dibattito verrà spinto da chi una voce ce l’ha già: ed è vicina, forte e familiare.

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  • ezio |

    Non credo che il problema sia la diversità ed anche l’identità, che sono sostanza e realtà oggettive non certo simboliche da livellare.
    Il vero problema è contrastare l’aggressione, la prevaricazione e la sopraffazione delle minoranze e di tutte le debolezze sociali nessuna esclusa, iniziando dai minori che sono la parte più fragile ed indifesa della società.

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