Perché le aziende hanno bisogno di sapere dove sono le persone che lavorano per loro?
1) Perché con lo stipendio comprano un bene (il tempo delle persone, oppure la loro capacità produttiva?) e vogliono poter decidere come e quando disporne;
2) per essere certe che stiano effettivamente lavorando per loro;
3) per dare loro un luogo in cui lavorare insieme: incontrarsi, stabilire relazioni produttive, risolvere problemi e creare soluzioni.
La domanda “quanti giorni a settimana?” è forse una delle più frequenti oggi, mentre ci riadattiamo ai ritmi dell’avanti indietro casa-lavoro, sopresi – ma non poi tanto – da come appaia facile “tornare indietro”. Quanti giorni a settimana puoi fare smart working? Le aziende si stanno assestando su uno, due giorni a settimana di flessibilità: 40% è una percentuale che suona bene, come nei saldi, è quasi un metà prezzo ma lascia quell’illusione di controllo che rassicura. Quindi, in ufficio per tre giorni a settimana, liberi di lavorare ovunque gli altri due: evitandosi le code in autostrada e il traffico in città, infilandoci magari la lavanderia e un caffè al bar, prendendosi la libertà di raccogliere un figlio a scuola e fare una call dalla sala di attesa di un medico, di straforo.
Non è dunque cambiato niente? La sensazione rimane quella di “imbrogliare” se nella flessibilità ci si permette di infilare un po’ di vita, se il problema di lavoro si risolve facendo jogging, se il progetto si porta a termine in metà tempo e nell’altra metà si sta con la famiglia, con gli amici o al supermercato?
In quale paradigma culturale ci stiamo muovendo? Abbiamo mantenuto in modo implicito un assunto di base, il numero 1: le aziende comprano il tempo delle persone e non la loro produttività. A quel tempo deve quindi corrispondere un’attività lavorativa e, laddove avanzino dei minuti, va creata nuova produzione per arrivare a saturazione. Una delle osservazioni più interessanti del movimento ROWE (Results Only Work Environment) è proprio che, se lo stipendio paga “a tempo”, aumenta la quantità di lavoro inutile per tutti: l’ottava ora di ufficio può infatti tradursi in uno spam di riunioni, email, richieste che, se avessimo la possibilità di andare a fare altro, non produrremmo.
La tecnologia, poi, ci ha resi oggettivamente più efficienti: trovare e condividere informazioni oggi è dieci volte più facile e veloce che 20 anni fa e così la quantità di dati che produciamo nella stessa unità di tempo si è decuplicata, portando la nostra capacità produttiva al limite di ciò che la mente umana può processare. Vi ricordate l’effetto perverso che ci ha travolti nei primi anni di posta elettronica? Con un clic potevi (e puoi ancora) mandare la stessa email a 100 persone: gli stessi 5 minuti per chi manda corrispondono a 500 minuti spesi dalla parte di chi riceve.
Il tempo umano ha quindi assunto un’altra capacità di produrre, ma anche di intasare, senza che questo abbia portato a pensare a nuovi modi di misurare la produttività. E’ possibile che questo valga anche oggi, dopo l’arrivo di una pandemia?
Ecco, quindi, il secondo assunto: le aziende non sono ancora certe che le persone stiano effettivamente consegnando ciò che promettono, e non sanno misurarlo in altro modo che vedendo dove i lavoratori passano il loro tempo. La relazione deve essere normata e monitorata perché è asimmetrica: quel che la persona produce non basta per confermare che stia facendo ciò per cui viene pagata, mancano delle informazioni. Per esempio, sui risultati. O anche, a monte, sugli obiettivi. Sono iniziati i viaggi turistici su Marte, ma ancora non sappiamo bene che cosa vogliamo che le persone producano né sappiamo valutare se effettivamente lo fanno. In alcuni Paesi va peggio che in altri e l’Italia è tra questi. Siamo il Paese dei furbi, dove a pensar male non sbagli mai: questo arricchisce i notai e ci incastra tutti in un florilegio di sistemi di controllo che tutti insieme non producono un’oncia di fiducia. Pensavamo davvero che questa mentalità non ci avrebbe riportati tutti, e di corsa, in ufficio, alla catena di montaggio? Se alla base della flessibilità non c’è l’autonomia che deriva dalla fiducia e dalla responsabilità, questa parvenza di cambiamento non avrà nessun reale impatto sul futuro del lavoro.
Sarà solo uno spostamento fisico della stessa mentalità da qui a lì. Quanto a lungo pensiamo che tenga e, soprattutto, a che cosa serve?
Infine, è vero che servono dei luoghi. Luoghi dove incontrarsi, organizzarsi, lavorare insieme. Dei luoghi e dei tempi, perché l’incontro avviene nel tempo oltre che nello spazio. La qualità dei luoghi ha un impatto sulla nostra capacità di produrre: per esempio le persone auspicano che ci sia del verde intorno a loro e che il luogo di lavoro sia accogliente e sicuro, oltre a facilitare le relazioni. La tecnologia può darci un aiuto sostanziale nell’organizzare i nostri tempi per consentirci di collaborare e per coltivare quella parte della comunicazione che passa per il contatto umano, elemento vitale quando la produzione deve essere creativa, risolvere problemi, far progredire processi e conoscenza, ma anche far stare bene. Occorre incontrarsi, non basta lo schermo di un Pc.
Occorrono i caffè, i corridoi, i balconi, le foto sulla scrivania, le partite di calcetto, gli imprevisti, i ritardi, gli sforamenti, i convenevoli.
La dimensione umana dell’incontro non è un lusso, un “di più”: è alla base di una capacità di progresso che può nascere solo dalla collaborazione, dal fatto che, come specie, sopravviviamo insieme, non da soli. Serve dunque e servirà sempre mettere a disposizione delle persone dei luoghi e dei modi per incontrarsi: questo dà un senso allo spostamento collettivo verso luoghi condivisi.
Il semplice interrogativo “Perché la mia azienda ha bisogno di sapere dove sono le persone che lavorano per lei?” spalanca quindi un universo di possibilità e di domande che in questo momento possiamo farci, ma anche di risposte che possiamo darci in modo nuovo: più adatto alla realtà di oggi e a quella che abbiamo in mente di costruire per il futuro.
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