“Un figlio nel CV” è il nome di una campagna social in corso in Brasile, che invita madri e padri a mettere in evidenza nel proprio curriculum la presenza di ciò che viene tradizionalmente nascosto: i cosiddetti carichi di cura che tanto tempo distolgono dal lavoro, bloccando a tempo indeterminato le carriere delle madri e mettendo i padri nella condizione di dover scegliere quale ruolo part time fare, se quello del padre o quello del lavoratore.
La campagna invita a fare coming out sulla presenza di figli nella propria vita, postare una foto e indicare quali competenze sono migliorate grazie al fatto di essere genitori. Anche in Italia stiamo facendo qualcosa di simile con “MyRealCV”, campagna ideata dalla mia azienda Lifeed che ha raccolto migliaia di adesioni in poche settimane, facendo emergere non solo la genitorialità ma anche altri cambiamenti della vita come motori di apprendimento: la cura dei propri genitori, il cambiare lavoro, il fatto che i figli vadano via di casa o anche l’avvio di una nuova impresa.
Sempre in questi giorni, fa notizia il fatto che la startup americana “The mom project”, un vero e proprio marketplace per le madri che vogliono rientrare nel mondo del lavoro, abbia raccolto 80 milioni di dollari di capitale per crescere velocemente fino a generare un valore di “transazioni” di madri lavoratrici che arrivi a un miliardo di dollari. Il movimento, insomma, è in corso, e l’attenzione sta crescendo: la tecnologia mette a disposizione strumenti potenti per rivelare talenti che altrimenti rischiano di restare bloccati dall’assenza di visibilità e di networking. Ma quali sono questi talenti? E’ poi vero, o è solo uno slogan pubblicitario, che la pratica attiva della maternità (e della paternità) sviluppi competenze?
Da 10 anni studio questo tema e dallo stesso numero di anni faccio l’imprenditrice: inevitabile che abbia verificato su di me questa tesi praticamente ogni giorno, scoprendo continuamente nuovi modi in cui il fatto di collegare aspetti tradizionalmente separati – come l’essere madre e l’essere imprenditrice – mi fornisca utili trucchi, ma anche vere e proprie prospettive, in entrambi gli ambiti. Eccone quindi tre di recentissima applicazione.
1) Essere sempre pronta al cambiamento: anzi, promuoverlo. Ho una figlia di 13 anni in piena adolescenza, che quest’anno rispetto all’anno scorso è raddoppiata in tutto. E’ più alta, più adulta, più donna, più complessa: se provassi a vederla come la vedevo appena sei mesi fa non capirei più niente, non riuscirei a raggiungerla. Immaginare, aspettarsi che le cose si trasformino: non guardare a colleghi, collaboratori, clienti come a realtà statiche, ma in continuo divenire.
Rimettere quindi in discussione quanto appreso e prestare attenzione ai cambiamenti, che di solito si manifestano in modo timido dentro schemi che prediligono ciò che rimane uguale e non sorprende, ma che proprio per questo restano limitati di fronte alla complessità degli esseri umani. Come cambiano i figli, così cambiano i colleghi e cambiamo noi (spesso vedere e tollerare i nostri stessi cambiamenti è la cosa più difficile): i figli ci insegnano ad amare queste trasformazioni, a vederle come una crescita necessaria a benvenuta, come un progresso. Possiamo fare lo stesso sul lavoro e io lo faccio con la mia azienda, con le persone che vi lavorano e con quello che tutti insieme rappresentiamo e portiamo sul mercato, in un continuo alternarsi di comprensione, immaginazione e sorpresa.
2) Saper stare vicini, saper esserci quando serve. Ho anche un figlio di dieci anni appena arrivato in prima media: ancora bambino, ma “gettato” in un mondo completamente nuovo; in questo caso è lui a vedersi ancora come era e a fare fatica, mentre sta a me aiutarlo a immaginare quello che sarà. Capisco quindi che è una fase in cui devo stargli vicina: come genitore so che non è possibile scegliere il momento in cui un figlio ha voglia e bisogno del mio aiuto, si tratta quindi di esserci “in generale” e aspettare che sia lui a venire da me, sapendomi nei paraggi.
Allo stesso modo la mia azienda ha bisogno di molta vicinanza e attenzione in alcuni aspetti che diventano più delicati in alcuni momenti e meno in altri: che siano persone in crisi o che attraversano “balzi di crescita” oppure dinamiche organizzative o di business che vanno guardate nel loro insieme. Anche nella mia azienda come con mio figlio non basta convocare una riunione, non emergerebbe granché: si tratta piuttosto di esserci e farlo sentire, di una presenza diffusa e punteggiata che muove più leve. Si tratta di pensarci prima, insomma, e di avere un piano per dedicare un po’ di attenzione extra quando serve.
3) Saper lasciar andare: delegare, far crescere, lasciar sbagliare. Note dolenti con i figli – ma anche con i collaboratori! – decidere quando e come mollare perché sperimentino l’autonomia (che all’inizio magari sa anche un po’ di solitudine). Non è mai il momento giusto per vederli grandi, tanto vale cominciare subito questo esercizio così contro natura per noi che li amiamo e che vorremmo proteggerli da tutto. E’ un istinto animale a insegnarci che non si può: i cuccioli che sanno stare da soli hanno più chance di farcela, noi non possiamo esserci sempre ed è bello vederli andare ogni volta più lontano, proprio senza di noi. In azienda per me è stato ancora più difficile: come se il progetto da cui è nata la mia impresa lo conoscessi davvero solo io, impossibile lasciarlo andare nelle mani di altri. Ma ecco che anche la mia azienda è diventata adolescente: ancora molto simile a me, ma pronta a muoversi in autonomia, e l’esercizio fatto sin da subito di non sentirmi sempre indispensabile mi sta aiutando a farla crescere ben oltre le mie capacità. A vederla, insomma, diventare grande senza dipendere da me.
Si parla tanto di competenze soft: quelle non tecniche, che non hanno formule chiare e riguardano la capacità squisitamente umana di gestire, comprendere e creare nella complessità. Sono, per dirne alcune, l’empatia, l’ascolto, la comunicazione, la comprensione dei problemi, la capacità di prendere decisioni, la creatività. E’ impossibile impararle in aula: richiedono una pratica costante in contesti diversi, richiedono una motivazione e un’attenzione che può nascere solo dalla rilevanza di ciò che le mette alla prova. Mettere un figlio nel CV può voler dire aggiungere un pezzo di vita che è anche un’imbattibile palestra, capace di generare proprio le risorse di cui il mondo del lavoro ha più bisogno oggi.
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