Gli anni 20 del 2000 furono quelli delle “Grandi Dimissioni”, scriveranno i libri di storia del futuro. Great Resignation è il termine coniato da Anthony Klotz, professore di Management alla Mays Business School del Texas, per definire l’aumento del numero di dimissioni avvenuto negli Stati Uniti con l’avvicinarsi della fine della pandemia: il 2,4% di dimissioni registrate a marzo 2021 rappresenta infatti un numero record negli ultimi 20 anni di storia americana. Come mai? La risposta del professore è lapidaria:
Sappiamo che in generale molti dipendenti rimangono dove sono solo perché i costi di lasciare sono più alti di quelli di restare, ma nell’ultimo anno questa situazione è cambiata. I costi del rimanere sono aumentati a causa del burn out, mentre si sono abbassati i costi del lasciare perché la pandemia ha consentito a molti americani di ridurre le proprie spese, ripagare i debiti e risparmiare denaro. La combinazione di un livello di stress più alto e di una maggiore stabilità finanziaria è la ricetta perfetta per un maggior numero di dimissioni.
Si spiega così il punto di partenza di questa emergente voglia di cambiamento, ma qual è il punto di arrivo? Solo conoscendo il traguardo che ha in mente chi lascia, le aziende potranno mettersi nelle condizioni di trattenere le persone che oggi, quasi paradossalmente, sperimentano una maggiore libertà di scelta. Siamo ben lontani da una visione di “risorse” umane, intese come beni che si possono acquistare e manutenere perché non si deteriorino e garantiscano produttività: una larga parte della forza lavoro ha infatti reagito alla transizione pandemica interrogandosi sul senso della propria vita – come le crisi spingono a fare – e volendone riprendere il controllo.
Questo è avvenuto proprio mentre altri fattori hanno spinto verso scelte radicali, al punto che un recente report di Microsoft afferma che il 40% delle persone sta pensando di dimettersi dal lavoro attuale entro l’anno. Non tutti potranno farlo, ma la cattiva notizia è che con ogni probabilità a riuscirci saranno i più talentuosi: quelli che alle aziende costa di più perdere. E’ lo stesso report di Microsoft a individuare le condizioni di questo sommovimento motivazionale: sette fattori che vanno dal crescente bisogno di flessibilità alla depressione che sta colpendo la generazione Z, entrata in un mondo del lavoro privato del contatto umano. Di questi sette indicatori, tre evidenziano delle coordinate di azione che riguardano la mole di lavoro, la responsabilità dei manager e la rivoluzione identitaria in corso.
1) L’aumento di produttività nasconde una forza lavoro esausta. I numeri parlano chiaro: l’invasione del mezzo digitale nelle relazioni lavorative ha eliminato i buffer, costringendoci a gestire un’agenda che non prevede tempi morti. Il tempo passato globalmente nelle riunioni online è più che raddoppiato e continua a crescere, anche la durata media di un meeting è aumentata di 10 minuti, passando da 35 a 45 minuti, e ogni persona manda in media il 45% in più di messaggi via chat a settimana. Si può quasi fisicamente vedere, l’ondata di produzione digitale scaturita da un lavoro a distanza scarsamente regolato: maggiore quantità che non vuol dire migliore qualità, e che contribuisce far sentire le persone in trappola, ad aumentarne lo stress. Davanti al computer come alla catena di montaggio, le persone hanno iniziato a farsi delle domande: il 37% dei lavoratori afferma che oggi le aziende stanno chiedendo troppo da loro.
2) I leader hanno perso di vista i collaboratori e hanno bisogno di una sveglia: la chiama proprio “sveglia”, il report di Microsoft, mentre Anthony Klotz mette in guardia dalla “pigrizia manageriale” che alimenta l’illusione di poter tornare indietro, alle vecchie modalità di lavoro. Con le modalità lavorative provvisorie ma persistenti indotte dalla pandemia, nella dimensione aziendale è entrata appieno la complessità di vite che adesso non possono sparire come per incanto.
Un delizioso video belga fa vedere un padre al “primo giorno di ufficio”, accompagnato dalla sua bambina che lo rassicura: rivedrai i tuoi amici, starai bene, non piangere. Perché il papà in ufficio non ci vuole tornare, e la mano della sua bambina è restio a lasciarla. Il video esaspera qualcosa che però è reale: la vita è entrata nel lavoro in modo nuovo e invadente, e adesso non si può spingere il pulsante rewind. Ai leader, ai manager, a chi decide, è richiesto di fare lo sforzo di vedere questo aumento di complessità come destinato a restare nel quadro e a cambiare le regole del gioco.
3) L’autenticità sarà un motore di produttività e di benessere: un’inusuale statistica menzionata nel report Microsoft dice che il 17% delle persone nell’ultimo anno ha pianto di fronte a un collega. Ci siamo mostrati nelle nostre case, con le nostre lavatrici, con i quadretti alle pareti, con la tappezzeria a fiori, con i bambini, la cucina, la vita e le emozioni, e così facendo abbiamo anche imparato a farlo: il 39% delle persone in più rispetto allo scorso anno si dice pronta a “portare tutta sé stessa al lavoro” e il 31% si vergogna meno di mostrare la propria vita privata sul lavoro.
Caduti i veli, c’è davvero quindi la voglia e l’intenzione di coprirci di nuovo? E perché poi, visto che chi ha avuto relazioni più prossime e trasparenti con i colleghi, sempre secondo il report, ha sperimentato maggiore benessere e produttività? Perché, se anche fosse possibile, dovremmo quindi voler tornare indietro? Meglio, piuttosto, andare via.
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