I nuovi assunti da Goldman Sachs hanno avuto un aumento di stipendio. A cambiare le politiche remunerative è stato lo stesso gruppo bancario, dopo che alcuni dipendenti hanno dato voce al malessere derivante dalle condizioni di lavoro a cui erano sottoposti. Diversi di loro, secondo quanto hanno riportato i media internazionali, hanno detto di lavorare anche 95 ore a settimana, accusando stress fisico, mentale e privazione del sonno: “C’è stato un punto in cui non mangiavo, non facevo la doccia o non facevo altro che lavorare dalla mattina fino a dopo mezzanotte.” È una delle testimonianze riportate dal Guardian. Com’è possibile?
È possibile se un’azienda vede le sue persone come ingranaggi e non come, appunto, persone. È possibile se si pensa che la salute psicologica non sia prioritaria e, viene il dubbio, nemmeno esista. Il ceo di Goldman Sachs ha definito il lavoro da casa “un’aberrazione da correggere il prima possibile” e questo fornisce la misura di una cultura aziendale di un’organizzazione che non ascolta, ma che impone una sua visione, a scapito del benessere delle persone. E la Generazione Z non ci sta.
Non è un caso che siano stati proprio i dipendenti appartenenti a questa generazione a denunciare le condizioni di lavoro e di burnout a cui erano arrivati. Per le nuove generazioni la salute psicologica non è un tabù ma una parte integrante del proprio benessere, tanto nella vita, quanto sul lavoro. Nessun problema, quindi, a parlarne apertamente e a rivendicarla come un diritto, quale è. Uno studio condotto da Sap e Qualtrics e pubblicato sulla Harvard Business Review, ci dice che il 75% delle persone appartenenti alla Gen Z ha lasciato il proprio lavoro per motivi legati al malessere psicologico, evidenziando come le persone che conoscono il valore della salute mentale non siano disposte a rinunciarvi.
Ma perché sembra che siano maggiormente le giovani generazioni a possedere questa consapevolezza? La risposta a questa domanda è fondamentale per comprendere l’evoluzione che il benessere psicologico sta avendo e per promuovere una sua cultura inclusiva in azienda, definendo azioni e prassi concrete, che rispondano alle reali esigenze delle persone, giovani e non solo.
Un ruolo fondamentale lo ha il web, e in particolare i Social: nell’ultimo periodo si è parlato molto di salute psicologica e sport, prima con Naomi Osaka e Jannik Sinner, e, in tempi ancora più recenti, con Simone Biles alle Olimpiadi di Tokyo. Eppure non è solo lo sport a muoversi in tal senso. Tra i Social, Instagram è un luogo nel quale il benessere mentale viene affrontato quotidianamente, attraverso contenuti e testimonianze, in Italia e nel mondo. Selena Gomez, attrice, cantante e persona tra le più seguite al mondo su questo social (255 milioni di follower), tratta frequentemente il tema sul suo profilo e ha recentemente promosso una petizione e una raccolta fondi per potenziare i servizi di educazione e supporto psicologico nei contesti educativi. Come lei, stanno facendo molti altri. Navigando su Instagram, infatti, emerge una normalizzazione della salute mentale: assiduo è il lavoro di divulgazione degli psicologi che su questo social hanno trovato uno strumento di comunicazione, ma costante è anche l’esempio di chi racconta la propria esperienza, parlando di depressione, ansia, attacchi di panico e così via. Con un sostegno e una condivisione, da parte della community, che ci si auspica, prima o poi, di poter trovare anche tra colleghi in azienda.
Se il tema, quindi, è stato finalmente sdoganato nello sport e sui media, nei luoghi di lavoro, la salute psicologica è ancora poco affrontata e spesso taciuta: si chiede al proprio collega come va il suo mal di schiena, ma non come va la sua gestione dell’ansia. Il piano emotivo viene dunque tagliato fuori e di mente si parla solo in termini di problem solving, creatività o prestazione intellettuale.
La maggior parte delle volte, mancano spazi e momenti in cui poter esprimere i propri vissuti, con la conseguenza che le persone accumulano frustrazione e stress, che non si sentono di poter condividere. Per non parlare di quei casi in cui l’azienda è la prima a non tenere in adeguata considerazione il benessere psicologico dei propri dipendenti. Pensiamo anche al tipo di risposta che è stata data ai neoassunti di Godlman Sachs: la soluzione più immediata ed efficace per gestire il burnout è stata individuata nell’aumento degli stipendi. Decisione che, di per sé, poco ha a che fare con quanto denunciato dai lavoratori e che rischia di delegittimare il malessere psicologico accusato dai dipendenti.
Le giovani generazioni ci insegnano non solo che “it’s ok to not be ok“, ma anche che di salute mentale si può – e si deve – parlare, soprattutto nelle conversazioni quotidiane. Solo così è possibile normalizzarla davvero: il benessere psicologico non ha bisogno di ambiti dedicati, ha bisogno di sistematicità. Ecco il motivo per cui la Gen Z richiede alle aziende una concreta attenzione a queste tematiche: escluderle dalla vita organizzativa, significa negare l’esistenza di un’importante porzione di ciò che rende gli esseri umani tali. È questa la ragione che spinge sempre più realtà ad attivarsi nella comunicazione all’esterno del loro impegno e dei servizi di supporto psicologico messi a disposizione alle proprie persone. L’hanno fatto ad esempio Google, Barclays con la campagna “This is me”, e Lundbeck con l’iniziativa #insiemeperlasalutementale. Quante altre aziende sono pronte a fare questo passo?
***
La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.