Elena Mukhina, campionessa di ginnastica artistica dell’allora Unione Sovietica, nel 1979 rimase paralizzata nel tentativo di compiere un salto di enorme difficoltà, mentre aveva una caviglia rotta. Mukhina soffriva per la frattura non curata, ma non poté tirarsi indietro, allenandosi fino a sei ore al giorno, nonostante avesse subito due interventi chirurgici per cercare di rimettere in sesto la caviglia. Aveva 19 anni. La durezza degli allenamenti delle ginnaste è un cliché legato al passato e all’Est Europa?
Kerri Strug, del team Usa ricordato come le Magnifiche Sette, nel 1996 diede prova di una performance da fuoriclasse, con due salti diventati praticamente iconici nel corso delle Olimpiadi di Barcellona, eseguiti con una caviglia slogata. Salì sul podio in braccio all’allenatore, Bela Karolyi, che insieme alla moglie Martha aveva allenato in Romania Nadia Comaneci.
Nello stesso team, Dominique Moceanu, allora quattordicenne, partecipò agli stessi Giochi Olimpici con una frattura da stress alla tibia. Durante l’esercizio alla trave cadde di testa sull’attrezzo e poco dopo eseguì la sequenza a corpo libero. L’incidente non ebbe ripercussioni gravi, come nel caso di Mukhina. Ma è lei oggi a dedicare una delle dichiarazioni più sensate alla scelta di Simone Biles di ritirarsi dalla gara a squadre delle Olimpiadi: “Avevo 14 anni con una frattura da stress tibiale, lasciata sola senza esame del rachide cervicale dopo questa caduta. La decisione di Simone Biles dimostra che abbiamo voce in capitolo sulla nostra salute: una voce che non ho MAI sentito di avere come atleta olimpica”.
Moceanu è stata tra le prime ginnaste a denunciare i metodi abusanti di Karolyi. La prima in assoluto fu Maggie Nichols, sollevando uno scandalo che portò a diversi arresti tra cui la condanna più eclatante fu inflitta nel 2018 a Larry Nassar, ritenuto colpevole di abusi sessuali su più di 500 atlete, e condannato a un totale di 176 anni. Ma gli abusi di Nassar si inseriscono in un contesto di violenze di vario genere normalizzate, un contesto in cui le ginnaste, fin da bambine, sono spinte a non mostrare fragilità o paura, per competere ad alto livello, costrette al silenzio con metodi espliciti o impliciti.
Potrebbe bastare questo per comprendere quanto sia fuori luogo e senza senso parlare di fragilità nel raccontare la scelta di Simone Biles di rinunciare a gareggiare alle Olimpiadi di Tokyo 2021. Biles, lo ricordiamo, è considerata una delle più grandi ginnaste di sempre, cinque volte campionessa del mondo, diciannove medaglie d’oro ai Campionati del Mondo, quattro medaglie d’oro ai soli Giochi di Rio del 2016, quattro salti che portano il suo nome e un potenziale quinto, preparato proprio in occasione di Tokyo2020. Un salto triplo all’indietro con le gambe tese: talmente difficile e pericoloso che i giudici della Federazione Internazionale di Ginnastica hanno deciso di assegnarvi un voto basso per non spingere altre atlete a provarlo. Perché compiere imprese del genere? Biles risponde: “Because I can”.
Perché posso. E il fatto di poterlo fare diventa un dovere come atleta e come campionessa, ma fino a un certo punto. Sacrificio, abnegazione e determinazione vanno spesso a braccetto, ma fino a un certo punto. Quello che ha fatto Biles, ritirandosi dalla gara, è stato rendere visibile quel “punto” oltre cui non si può e non si deve andare. È stato un gesto di rottura immenso in un sistema in cui la sofferenza e il silenzio sono riconosciute come qualità positive. Biles ha saputo vedere non solo il proprio limite fisico, ma anche il proprio limite umano, emotivo, e a dargli voce al di sopra di tutto. Può darsi che sia stata consigliata dallo staff, nel momento in cui ha mostrato incertezze e perdite di concentrazione che avrebbero potuto risultare un pericolo per la sua incolumità.
Il punto è: la fragilità è sbagliata? È un errore di sistema? È qualcosa di cui vergognarsi? Contrapporre la forza di volontà di altre campionesse all’immagine del ritiro di Biles, crea un confronto malsano, schiaccia la figura di questa incredibile ginnasta in un sistema di valori in cui la forza vince e la fragilità perde, distoglie l’attenzione da tutte le conquiste, i successi e le imprese compiute per puntare il dito verso la debolezza come capo d’accusa.
Le verità da dire in realtà sono due. Anzitutto che riconoscersi fragili o colpiti in un sistema che ci vuole a tutti i costi forti e performanti, denota in sé una forza d’animo e una determinazione che dovremmo imparare a spostare nella colonna dei valori positivi, perché ci parlano di protezione, di cura, di amore per se stessi.
In secondo luogo, già che siamo in periodi di distruzione dei sistemi binari, perché contrapporre forza a fragilità come fossero opposti? Perché attribuire valore positivo all’una o all’altra? Facciamo anche noi un’impresa alla Biles, un triplo pensiero carpiato, per riconoscere che “forza” e “fragilità” sono semplicemente due aspetti della natura umana, che fanno parte di noi tutti, atleti e non, uomini, donne, persone. Non ci rendono migliori o peggiori, li sperimentiamo costantemente nella nostra vita e meritiamo di sentirci liberi di essere forti e fragili, resistenti e stanchi, a muso duro o a spalle basse. L’equilibrio sta nella libertà di dire no, come ci stanno insegnando atlete come Simone Biles e Naomi Osaka.
In ogni caso Biles si è ritirata dalla gara a squadre, ma per il momento si sa che parteciperà alle individuali nei prossimi giorni. Nel frattempo anche la direttrice esecutiva dell’Unicef, Henrietta Fore, ha scritto: «Grazie per essere un modello, e per mostrare al mondo che bisogna dare la priorità alla propria salute mentale».