E se a salvarci fosse la nostra anti economica umanità?

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Il recente report di Deloitte, “2021 Global Human Capital Trends”, conferma con dovizia di dati che sempre di più, ancora di più con l’esperienza della pandemia, l’essere umano con le sue caratteristiche e peculiarità dovrebbe essere al centro per consentire al sistema non solo di sopravvivere ma di “fiorire”. Si parlava di “ritorno all’umano” già prima del 2020, ma in questi diciotto mesi abbiamo intravisto qualcosa di nuovo: le regole che ci siamo dati e che ci governano oggi – quanto meno in ambito economico, ma sappiamo quanto l’economia poi detti legge al resto – sembrano contrapporre la dimensione umana a quella, appunto, economica.

In sintesi, non è detto che scelte umane siano economiche, anzi: molto spesso l’umanità appare come la scelta meno “conveniente”.

Ricordo dagli anni dell’università che il presupposto che ci ha portati in questa direzione è stato quello che una buona economia producesse più risorse per tutti, e quindi conveniva sempre fare scelte che massimizzassero alcuni indicatori di tale valore. Ho finito l’università nel 1997 e credo che gli ultimi 25 anni ci abbiano dimostrato che non va proprio così. C’è però qualcos’altro che ci porta a scegliere in modo “economico” anche a livello micro, ed è l’orizzonte temporale della scelta, come emerge da alcuni aspetti del report Deloitte che proverò a sintetizzare in 5 punti.

1) Punto di partenza: Deloitte chiama “sociale” ogni impresa. Aveva iniziato qualche anno fa a dedicare al concetto di impresa sociale dei rapporti ad hoc, adesso afferma semplicemente e con forza che ogni impresa è sociale oppure non è. Se non è “distinctly human at its core” e non utilizza un orizzonte di sostenibilità più ampio nel tempo e nello spazio, se quindi non ha l’impatto sociale tra i propri principi guida, un’impresa distruggerà più di quanto crea.

E’ l’evoluzione della Corporate Social Responsibility – che demandava l’aspetto di responsabilità a una funzione all’interno dell’azienda – passata poi per importanti meccanismi regolatori come la veste giuridica delle b-corp che sta prendendo piede in questi anni (dimostrare con misuratori chiari che si ha la sostenibilità ambientale, umana e sociale nel “cuore” delle proprie operazioni), fino alla buzz word degli  “ESG” che dalle stanze della finanza atterrano sui tavoli dei CEO come l’ultimo, più attuale criterio con cui abbellire i comunque prioritari risultati finanziari. Ricordiamo che questa conversazione ha accelerato nel 2019 con la lettera di Larry Fink, CEO di BlackRock, ai CEO su “Profitto e Purpose”, seguita dall’impegno dei 189 CEO di aziende leader nel mondo ad anteporre il purpose al profitto.

Come a dire, ne stiamo parlando.

2) Nell’ultimo report, Deloitte quindi insiste: umano al centro come unica possibilità di andare oltre la mera sopravvivenza, perché solo le caratteristiche che fanno di noi creature così poco economiche – l’intuito, la flessibilità, la creatività, l’imperfezione che ci consente di apprendere continuamente – sono in grado di governare e dare un senso a un mondo imprevedibile e tutt’altro che meccanicistico. E quindi suggerisce alle aziende: prima di tutto il benessere delle persone, delle loro menti e dei loro cuori, per avere al centro dell’impresa economica un motore vitale, in grado di rigenerarsi anche da solo (si, le persone sanno prendersi cura di sé e fare delle scelte da sole). Una visione del benessere, così dice il report, che segna la fine del concetto di “equilibrio vita-lavoro”.

Perché abbiamo capito che è tutta vita, anche il lavoro.

3) Attraverso questo sguardo nuovo, anche la formazione cambia forma. Impossibile pensare di decidere continuamente top down quali competenze servono a chi, insostenibile inseguire i cambiamenti del mercato aggiornando in tempo reale ciò che ognuna delle nostre persone sa fare. Unica chance per far fiorire questo aspetto: “empowering workers with agency and choice” – dare ai lavoratori la possibilità di scegliere e di agire. Fidarsi, insomma, della loro capacità di giudizio, di una conoscenza di sé stessi che potrebbe, questa sì, essere coltivata e nutrita, perché l’ampio potenziale di ognuno venga messo in gioco.

Perché viviamo in un mondo incerto, in cui “l’opposto di reattivo non è più proattivo, ma creativo”.

4) Ma ecco che, nei dati emersi dal sondaggio, viene fuori perché queste indicazioni così belle e apparentemente ovvie si scontrano con l’economia delle “piccole cose”. O meglio, l’economia del breve termine: che comprende tutte le scelte che facciamo per avere risultati a breve, per risolvere l’immediato, e le cui conseguenze si ammassano tra noi e la reale possibilità di cambiare. Il primo dato viene dalla domanda fatta a 3.630 dirigenti riguardo a ciò che è stato fatto nell’ultimo anno per rendere il lavoro da remoto sostenibile. Nella classifica degli otto fattori menzionati, la componente di attenzione al fattore umano, al benessere delle persone, occupa gli ultimi posti: solo il 10% menziona infatti l’utilizzo di migliori strumenti di benessere, laddove il 39% cita piattaforme digitali di collaborazione, il 36% l’attenzione a nuove regole operative, il 23% la disponibilità di strumenti tecnologici.

Prima il pane, poi le rose: chi avrebbe da ridire in merito? Ma siamo davvero sicuri che si tratti solo di rose?

5) Ed ecco, a chiudere, un secondo dato che, con la violenta precisione dei numeri, ci rivela la direzione in cui stiamo progettando. Deloitte ha infatti chiesto agli executive di cui sopra e a 1.108 “individual contributors”: “Quali sono i risultati più importanti di trasformazione del lavoro che speri di raggiungere nei prossimi 1-3 anni?”. Dei nove fattori in classifica, ai primi 3 posti per i capi vi sono il miglioramento della customer experience, maggiore innovazione e minori costi; ai primi 3 posti per i lavoratori “individuali” migliore qualità, più innovazione e un miglior benessere dei lavoratori (che cade invece all’ottavo posto nella classifica dei capi, facendo meglio solo del fattore “migliorare l’impatto sociale”, sic).

Se il dato del punto precedente esprimeva una reazione immediata, strumentale al mettere le persone nella condizione di continuare a lavorare; questo dato invece ci parla di priorità, descrive il nostro futuro. Capacità di innovazione e benessere dei dipendenti sembrano essere disaccoppiati, così come la customer experience sembra essere scollegata dalla employee experience. Mettiamo, insomma, prima le cose importanti, quelle hard che si leggono nel conto economico, e poi i “nice to have”, i fattori soft.

Ma è possibile avere innovazione senza far fiorire le persone che quell’innovazione dovrebbero produrla? Davvero pensiamo che l’innovazione provenga solo dalla tecnologia?

Insomma, gli esseri umani sono volatili, incerti, complessi e ambigui. Proprio come il mondo VUCA a cui appartengono e per cui sembrano essere fatti su misura. Per attivarne il potenziale basterebbe decidere che, anche se sembra antieconomico, questo è il momento di vederli di più e dargli più fiducia, e fare di questo cambiamento una priorità.

A proposito: non c’è un momento preciso in cui questa trasformazione potrà ufficialmente iniziare. Come quando un figlio cresce, qualunque cosa pensiamo sia giusto fare, dirgli e insegnargli, l’unico momento in cui ha senso iniziare a farlo è subito: non è troppo presto, non è troppo piccolo, non rimandiamo. Con la consapevolezza però che iniziare a fare cose nuove vuol dire smettere di farne delle altre, ed è proprio questa la parte più difficile.

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