Storie di violenza e di chi resiste grazie ad altre donne. Ma servono aiuti

summerfield-336672_1920La mia è una storia di resistenza, non so neanch’io come sono riuscita a trovare la forza per andare avanti, ci sono stati più momenti in cui ho pensato di farla finita, io e mio figlio insieme”. A raccontare la sua storia è Pamela, ha vissuto nella violenza per 30 anni, fino a quando il figlio è diventato maggiorenne. “Volevo lottare solo contro il mio ex, avere un solo nemico. Ho conosciuto troppe donne che combattono per non perdere i propri figli”, ci spiega. Pamela ha trovato “la persona giusta al momento giusto. Un amico di famiglia mi ha aiutato, mi ha detto che avrebbe fatto di tutto se solo glielo avessi permesso. Io ero terrorizzata. Lui mi ha parlato dei centri antiviolenza e mi si è aperto un mondo. Le operatrici mi hanno aiutata a trovare il coraggio per affrontare la violenza. L’ho fatto grazie all’istinto di sopravvivenza”. Pamela ha trovato la forza grazie a un’immagine ricorrente: “Io e mio figlio, mano nella mano, in un prato verde. E’ questa scena che mi ha fatto andare avanti, per questo ho resistito tutto questo tempo, anche se il prezzo è stato altissimo. Ora sto ricostruendo la mia autostima, la mia dignità e la vita di mio figlio, che ha sempre vissuto nella violenza”.

Sono tante le storie di donne che resistono e vanno avanti nonostante tutto, come Giovanna. Sua figlia Lauretta è stata uccisa dal padre una mattina d’estate di sette anni fa, a soli 11 anni. Da quel giorno Giovanna non si dà pace, combatte per dare un futuro agli altri suoi tre figli che hanno assistito all’omicidio e portano addosso ancora le cicatrici di quel giorno. Sono stati lasciati soli dalle istituzioni e dalla gente.
Appena si sono spenti i riflettori ho sentito intorno a me un silenzio assordante, ho visto occhiate di denuncia”, dice Giovanna. “I mei figli avevano e hanno bisogno di sentire l’appoggio delle istituzioni e invece lo stato non li riconosce neanche come vittime: mia figlia è sopravvissuta ed è viva per miracolo. Noi siamo gli invisibili, neanche le istituzioni locali ci hanno aiutati a trovare un lavoro. Da sei anni e mezzo aspetto la chiamata per le sedute di terapia”, sospira Giovanna, che ha trovato la forza nell’amicizia con un’altra donna col suo stesso destino, Vera. “Il primo anno è stato terribile, le accuse, il silenzio intorno a me mi stavano portando alla follia. Poi un giorno ho sentito la notizia della morte di un’altra ragazza, Giordana. Ho pensato subito a quella mamma che stava vivendo il mio stesso dolore. L’ho contattata e nel giro di un paio di giorni ci siamo incontrate, ci siamo abbracciate e non ci siamo lasciate più”.

Giordana è stata uccisa nel 2015 a soli vent’anni dal suo ex, che lei aveva denunciato. Ha lasciato una figlia di 4 anni. Vera e Giovanna vanno in giro nelle scuole in tutta Italia a portare la loro testimonianza, per far capire che le vittime non devono essere lasciate sole. Tanti ragazzi scrivono e chiedono consigli. “Il progetto che Giovanna e io portiamo avanti in memoria delle nostre due bimbe, colpisce molto i giovani”, spiega Vera. “Ogni volta che raccontiamo le nostre testimonianze si crea un confronto, un dialogo, un’empatia. Proprio perché le storie delle nostre figlie sono reali, sono storie che i ragazzi conoscono solo attraverso i media, ma sono vere. Vedendoci si rendono conto che la violenza esiste davvero. Abbiamo molto riscontro e questo ci fa capire che qualcosa accade. Spesso veniamo contattate da ragazze che attraverso nostri racconti si sono riconosciute in una relazione violenta e ne sono uscite grazie ai genitori. Perché dico sempre: parlate e dite tutta la verità. Non dobbiamo vergognarci di quello che fanno gli altri”.

Vera cresce la sua nipotina che ora ha dieci anni. “Stiamo cercando quotidianamente di elaborare questa mancanza, che per lei è lacerante – sottolinea – sappiamo che la società punta il dito perché è orfana ma soprattutto è figlia dell’assassino di sua madre. E questo la fa sentire diversa. Lei sa perfettamente cosa è accaduto, non ho voluto nasconderle nulla perché non avesse alcun dubbio, io devo essere il suo punto di riferimento e colei che può darle tutte le risposte”. Tante risposte in realtà dovrebbero arrivare dalle istituzioni. Ma a 10 anni dalla firma dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere, in Italia c’è ancora molta strada da fare. Un terzo delle donne tra i 16 e i 70 anni nel corso della vita subisce violenza, oltre il 90% non denuncia e nei casi estremi si arriva al femminicidio: in media uno ogni 3/4 giorni. Con la pandemia la situazione è peggiorata: gli omicidi di donne e le chiamate al 1522 sono aumentati. Gli ultimi dati Istat mostrano nel 2020 un aumento di quasi l’80% delle chiamate, con un boom da fine marzo, mese del primo lockdown e i picchi ad aprile (+177% rispetto ad aprile 2019), maggio (+182%) e in occasione del 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne.

A livello nazionale spesso non c’è una cabina di regia che indica percorsi omogenei ma spetta al singolo – Comune o Regione – organizzarsi. E’ il caso della Regione Lazio, esempio virtuoso nel contrasto alla violenza di genere, tra gratuito patrocinio e contributi a donne e bambini. “Stiamo monitorando e implementando la rete: alla fine dell’anno conteremo 30 centri antiviolenza, 17 case rifugio e una casa di semiautonomia”, sottolinea l’assessora alle pari opportunità, Enrica Onorati. Per tutte le donne vittime di violenza maschile è attivo il patrocinio gratuito legale in sede civile e penale – novità di queste settimane – ed è in corso un progetto con le scuole dal titolo “Io non odio”, una campagna di sensibilizzazione rivolta ai giovani. “Nella prima edizione abbiamo ricevuto adesioni da 41 istituti per 3mila studenti”, continua l’assessora, spiegando inoltre che “la Regione prevede un sostegno continuativo agli orfani delle vittime di femminicidio: 10mila euro il primo anno, 5mila gli anni successivi fino al compimento del 29esimo anno di età. Purtroppo i beneficiari sono tanti”, dice Onorati. Altra iniziativa della Regione il contributo di libertà, 5000 euro una tantum per le donne che si trovano all’interno di un percorso di fuoriuscita dalla violenza. “Grazie alla Regione Lazio è diventata una misura strutturata possibile da sostenere a livello nazionale: stiamo insistendo affinché diventi uno strumento da adottare in tutte le regioni. Noi abbiamo sostenuto più di 150 donne nel 2020 e lo rifaremo nel 2021”, afferma l’assessora.

Sul tema della violenza dobbiamo creare risposte omogenee in tutti i territori. Dobbiamo elevare le best practices a una cabina di regia nazionale per arrivare a obiettivi comuni. Le vittime devono sentirsi parte di una rete, di un sistema paese che le sostiene”, conclude Onorati. Tra i maggiori ostacoli “la disarticolazione normativa, le risorse affidate alle regioni senza un indirizzo chiaro, con un passaggio fondamentale: la concertazione”.

Parole chiave dunque, sempre rete, formazione e dialogo tra tutti i soggetti in campo: centri antiviolenza, scuole, enti locali, forze dell’ordine, tribunali, con risposte omogenee e rapide in tutti i territori. Questa è l’unica soluzione per prevenire e aiutare le vittime a uscire dalla violenza.

Il reportage completo si può ascoltare nel podcast STORIE DI CHI RESISTE, quinta puntata del progetto DONNE IN ROSSO di Radio24 contro la violenza sulle donne a questo link.

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