Togliamoci la maschera e diciamocelo: il normale non esiste, siamo tutti diversi

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E’ ancora in cima all’agenda delle aziende, forse oggi più che mai, ma in modo radicalmente nuovo: il concetto di diversità e inclusione. È ormai evidente che lo spazio di ciò che può essere considerato “non diverso” (uguale?) si è ridotto a un fazzoletto: in troppi sono troppo giovani o troppo vecchi, troppo colorati, troppo femminili, troppo nuovi, troppo qualcosa di diverso da ciò che il sistema è in grado di trattare come normale.

Ne stiamo perdendo troppi, direbbe il comandante di un esercito – o il responsabile delle risorse umane di un’azienda: ne stiamo perdendo troppi perché non riusciamo a vederli per quel che realmente sono, e perché cerchiamo di trasformarli per renderli uguali a un normale che non esiste più. Anche i tentativi di normalizzazione stanno infatti fallendo a uno a uno: a iniziare dai corsi per insegnare alle donne ad apparire meno diverse, più simili al vecchio modello di potere, e così facendo se ne sono perse a migliaia. Abbiamo perso tutti i talenti che, proprio perché “extra misura” rispetto alla porta d’ingresso, a parlare con noi non ci sono mai neanche arrivati. Abbiamo perso quelli che non ce l’hanno fatta a fingere di essere uguali, di essere “meno” di quell’insieme di complessità che fa di ognuno una storia unica, un talento unico.

Nessuno ha saputo dirlo meglio di Bozoma Saint John, chief marketing officer di Netflix:

“Passiamo il tempo a nascondere delle parti rotte di noi. Indossiamo una maschera che qualcun altro, da qualche parte, ha creato, dicendoci come dovremmo essere. Non so più contare quante volte nei meeting, a beneficio di una fantomatica comprensione di massa, rendiamo tutto color vaniglia, perdendo ciò che è davvero importante”.

bozoma-st-john-speaker-marketing-apple-thinking-headsLa storia di ognuno di noi conta, ripete più volte Bozoma in un video girato per il corso della Harvard Business School “Anatomia di un cazzuto”: la storia di ognuno di noi è l’unica cosa che conti davvero.

“Sono un’executive migliore perché sono un’immigrata. Sono un’executive migliore perché sono la mamma single di una undicenne. Sono un’executive migliore perché sono vedova e perché so ballare. E lo dirò sempre a voce alta”.

Questo vale sempre, anche quando non appari immediatamente diverso. Siamo tutti portatori sani di storie uniche, sempre troppo ricche per poter essere rinchiuse della definizione di qualcun altro. La storia di ognuno di noi viene in parte tagliata fuori ogni volta che cerchiamo di essere ciò che gli altri si aspettano o, più probabilmente, ciò che noi pensiamo che gli altri si aspettino.

joey-nicotra-0ei_4r2r0qg-unsplashNon è un’illusione, certo che no. Gli stereotipi esistono e governano la nostra vita sociale e professionale. È naturale e istintivo volersi sentire come gli altri, e l’appartenenza a un’identità collettiva è precondizione per un nostro sano funzionamento. Essere “cazzuti”, come nella coraggiosa definizione del corso di Harvard (ma è d’obbligo specificare che l’originale inglese badass fa riferimento a una parte anatomica del corpo che possiedono sia uomini che donne, a differenza della sua traduzione italiana), non vuol dire fare quel che si vuole quando si vuole e senza rispetto per gli altri, tutt’altro. E’ proprio nell’intenzione di essere interamente sé stessi che le norme sociali possono aiutarci a evitare il caos: a creare territori comuni di espressione, che facciano spazio all’autenticità e all’armonia.

Uno sforzo aggiuntivo rispetto all’utilizzo di regole già note e condivise? In realtà no, perché buona parte delle definizioni che osserviamo oggi non ci rispecchiano più, e adattarvisi comporta fatica. In realtà il corso di Harvard – condotto da Francesca Gino, docente nota in Italia ed esperta di queste tematiche a livello mondiale – mette in evidenza come la capacità di mostrarsi per ciò che si è migliora la performance e il coinvolgimento con il proprio ruolo. E questo vale ancor di più se riusciamo a mostrarci diversi proprio quando ci sentiamo vittime di stereotipi: una specie di effetto “anti fragile” per cui rivelarci vulnerabili ci rende più forti.

Come fare? Come unire l’intenzione individuale di ognuno di noi allo sforzo delle nostre aziende verso una migliore capacità di fare spazio alla diversità? Il tema è così attuale che il 18 marzo, durante una conferenza dell’organizzazione Horasis sulla “Ricostruzione della fiducia” negli Stati Uniti, parteciperò a un panel dal titolo “Siamo chi siamo”, confrontandomi con una parlamentare greca, tre executive americani e una giornalista di Bloomberg.

Il primo passo è anche il più difficile, e riguarda la nostra capacità di vederci per ciò che siamo. Spogliati dalle aspettative degli altri (o da ciò che ci aspettiamo gli altri si aspettino): che cosa resta di noi? Non è una domanda che può trovare una risposta puntuale: è un modo di guardare a noi stessi che possiamo attivare un po’ alla volta, stando attenti nelle varie circostanze a quanto di ciò che facciamo e diciamo ci appartenga interamente e quanto invece appartenga alla “maschera”. Senza demonizzarla – ci mancano solo altri sensi di colpa! – ma vedendola, dandole un nome, essendole grati per il senso di sicurezza che ci dà, e provando a guardarle dietro. Saper pensare ci è naturale, e guardare dietro alla maschera è un processo riflessivo. A cui, come insegna anche il corso di Harvard, aggiungere una componente organizzativa: deve esserci l’intenzione consapevole di portare avanti quelle parti di noi, di renderle visibili, nell’arco della giornata.

La diversity nelle aziende e nella vita riguarda ognuno di noi, e non dei fantomatici “diversi”. Se anche esistesse ancora da qualche parte un “normale” (o un “uguale”), sarebbe circondato da persone le cui storie sono troppo ampie e ricche per essere contenute nelle definizioni scritte da altri. Sarebbe dunque il rappresentante di un’esigua minoranza, e dei progetti speciali servirebbero per lui.

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  • ANDREA SELVAGGIO |

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