In tempi non sospetti CoorDown ha realizzato una campagna globale sul tema dell’inclusione scolastica. In molti in Italia hanno sostenuto che il problema non ci riguardasse direttamente. Invece la minaccia è ora in casa nostra.
“Lea Goes to School” (che potete vedere qui sotto, qui il libro) raccontava la storia di una bambina con sindrome dei Down per la quale è stato costruito un mondo a parte: amici speciali, classe speciale, lavoro speciale, casa speciale. Lea però si ribella e chiede di giocarsi la sua partita nel mondo di tutti. Al grido di “l’inclusione inizia dalla scuola” aprimmo un grande dibattito e sostenemmo che per realizzare una piena inclusione nella vita è necessario iniziare dalla scuola e favorire un profondo cambiamento culturale. Fu un grande successo nel mondo, mentre in molti in Italia ci diedero dei visionari. In verità i segnali della regressione erano sotto gli occhi di tutti.
I punti critici del nuovo decreto
Il decreto interministeriale 182 del 29 dicembre 2020 è uscito in gran fretta tra Natale e Capodanno (forse perché il governo stava per cadere?), ma non ci ha colti impreparati. Erano tre anni che lo aspettavamo e da mesi circolavano le bozze dei nuovi modelli di PEI. Per i non addetti ai lavori, il PEI è il Piano Educativo individualizzato, un documento in cui sono definiti gli obiettivi educativo e didattici dell’alunno con disabilità, un progetto “su misura” che risponda alle sue capacità, potenzialità ed esigenze. Di fronte alle nuove bozze di PEI, alcune associazioni che si occupano di disabilità si sono mobilitate già quest’estate, il CoorDown stesso ha scritto alle massime cariche dello Stato a questo proposito chiedendo audizione. Ma la voce delle famiglie è rimasta inascoltata.
Il decreto presenta indubbiamente aspetti positivi come la corresponsabilità educativa, la prospettiva bio-psicosociale, la partecipazione attiva dell’alunno con disabilità nei processi decisionali e il legame con il Progetto Individuale. Ma è indubbio che il documento segni un’inversione di rotta nell’inclusione scolastica, prima di tutto dal punto di vista culturale. Si parla di esonero da alcune discipline, di riduzione dell’orario scolastico, di attività fuori dal gruppo classe. Viene inoltre introdotto il concetto di “debito di funzionamento” e un nuovo automatismo per la richiesta delle ore di sostegno: si parte dal presupposto che ci sia uno standard di normalità a cui gli alunni devono rispondere e in base a questo viene stabilita l’entità del debito. L’estrema standardizzazione rischia di perdere di vista la persona e di concentrarsi su quello che manca per rispondere a un normotipo di riferimento. È di fatto un passo indietro sul piano culturale, dove la diversità cessa di essere una risorsa e diventa un gap da colmare. A tutto ciò si aggiunge il ruolo marginale a cui viene relegata la famiglia nelle decisioni che riguardano l’alunno.
Perché no all’esonero?
Il punto di partenza diventa cosa può imparare e cosa non può imparare un alunno e su questo si costruisce un PEI, si decide le materie da non fargli studiare e le ore che può passare in laboratorio o in cui non serve frequentare ed è meglio imparare a fare la spesa o a contare gli euro! Il punto di partenza invece dovrebbe essere: io insegnante come posso rendere la mia materia accessibile anche ad un alunno con difficoltà, cosa posso fare per farlo partecipare anche ad una materia particolarmente ostica, quali strategie posso mettere in campo per coinvolgerlo, che relazioni posso stimolare all’interno del gruppo classe.
I laboratori non sono da demonizzare di per sé, dipende che cosa si fa e con chi, se in gruppi eterogenei e se non sono un semplice intrattenimento. Qui non si parla di non voler semplificare i programmi, di non voler costruire un percorso a misura dell’alunno e delle sue esigenze, si tratta di avere un pensiero inclusivo, si tratta di non lasciare indietro nessuno. Una donna che stimo molto in un intervento alle Nazioni Unite ha detto: “Tutti abbiamo diritto di imparare. Gli insegnanti dovrebbero essere propositivi e non partire da basse aspettative e dire loro quali sono i nostri limiti. Per me non esistono concetti facili e difficili. C’è sempre il modo semplice per spiegare le cose. Se penso alle cose che non mi sono state spiegate e insegnante, questo mi fa arrabbiare. Gli studenti hanno il diritto di imparare e capire.” Marta Sodano ha 26 anni, ha la sindrome di Down e la scuola l’ha vissuta sulla sua pelle.
Il futuro che non vogliamo: le classi speciali
Mia figlia di anni ne ha 16 e lo direbbe con meno precisione di Marta, ma sull’esonero ha le idee chiarissime forse perché lei la classe speciale l’ha frequentata ed è stata l’esperienza peggiore della sua storia scolastica. La nostra famiglia ha vissuto alcuni anni all’estero e i nostri figli hanno frequentato la scuola americana e la scuola francese. Nell’anno di scuola francese Emma era un’alunna dell’ULIS (unità localizzata per l’inclusione, un bel nome per dire classe speciale) e ad inizio anno il consiglio di classe (senza conoscerla) ha deciso che era “abile” a frequentare solo musica, ginnastica, spagnolo e scienze nella classe regolare, mentre era esonerata dal resto delle materie, in quelle ore frequentava una classe speciale con altri alunni con diversi tipi di disabilità.
Frequentava anche un minor numero di ore, perché si riteneva che questo giovasse al suo benessere psicofisico. Il mercoledì quando tutti gli studenti frequentavano solo mezza giornata, lei e i compagni della classe speciale stavano a casa. Non ho grandi imbarazzi ad affermare che quando ho letto il decreto ho avuto un déjà vu e che la conseguenza dell’esonero e della riduzione dell’orario scolastico non sarà che questa. Non è terrorismo, non è allarmismo. È esperienza vissuta sulla propria pelle. Cosa credete che succederà agli alunni esonerati? Dove passeranno le ore di scuola e con chi? In spazi laboratoriali o in aule riservate? Certamente lontano dal gruppo classe, con l’insegnante di sostegno, che diventa il “suo” insegnante o con l’educatore, il “suo” educatore. Ecco che ci siamo già giocati la corresponsabilità educativa da cui siamo partiti.
Il dibattito sul decreto
In queste settimane si è acceso il dibattito sull’argomento, si sono susseguite presentazioni del decreto, webinar formativi e articoli. C’è chi difende la normativa con fermezza e chi la critica aspramente. Come è possibile? Oltre ad alcuni punti sostanziali su cui non ci si mette d’accordo, l’impressione è che si sia lasciato troppo spazio alle interpretazioni. Forse se il decreto fosse scritto a dovere non necessiterebbe di 65 pagine di linee guida, FAQ di chiarimento e decine e decine di webinar e pareri di esperti per spiegarne i punti oscuri. Credo che dopo tre anni di attesa ci saremmo tutti (dirigenti scolatici, insegnanti, educatori, famiglie e alunni) meritati un testo chiaro senza incomprensioni. Ma un testo chiaro presuppone un pensiero chiaro, un testo chiaro presuppone un confronto schietto che evidentemente non c’è stato o c’è stato solo con alcuni.
La mobilitazione del comitato #NoEsonero
È per questo che un gruppo di associazioni compatto e determinato guidato dal CoorDown ha lanciato in questi giorni una protesta per manifestare l’unanime dissenso sul D.I. 182/2020 e sui nuovi modelli di PEI. Sono associazioni che si occupano di disabilità di vario tipo, motorie, sensoriali, intellettivo-relazionali, malattie rare, che hanno offerto punti di vista diversi e preziosissimi e che non si sentono rappresentati ai tavoli istituzionali. Una grande mobilitazione online che punta a dar voce alle migliaia di persone che chiedono modifiche concrete al nuovo Decreto PEI per garantire il diritto ad una scuola davvero inclusiva per gli alunni con disabilità. Un’onda arancione ha invaso le bacheche di Facebook, oltre 9000 persone hanno cambiato la loro foto profilo con il motivo #NoEsonero per aderire alla protesta, 10000 persone hanno già sottoscritto la petizione in sole 48 ore, e sabato ci siamo dati appuntamento sui principali social network per un flash mob, una manifestazione virtuale sulla piazza del web. Il messaggio è forte e chiaro: L’inclusione non si fa fuori: non si fa fuori dalla classe, ma anche non la demolirete. Quello che chiediamo è di aprire un tavolo di confronto con estrema urgenza e di ridiscutere i punti critici del documento.
Martina Fuga
(responsabile comunicazione CoorDown e autrice de Lo zaino di Emma)
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