Giornata della Memoria, l’Olocausto raccontato dalle donne

alleybooks_giornata-della-memoria

Ci sono le conversazioni tra deportate, che parlano “della famiglia, degli amori, del lavoro”. Ci sono le case di tolleranza nei lager, tra macabre violenze e iniezioni per bloccare la fecondità. Ci sono streghe torturatrici che esibiscono i corpi delle vittime come trofei. Ci sono coraggiose custodi di un pugno di preziosissimi libri. C’è la cura per le compagne malate. Ci sono madri e figlie che si stringono per resistere e madri e figlie che invece si distruggono. Ci sono viaggi della speranza e della memoria. Ci sono intrecci del destino nelle città sconvolte dalle leggi razziali e dalle deportazioni. Ci sono gli stupri, le prigioniere costrette a prostituirsi per mangiare, le amicizie che nascono come fiori nel deserto.

Si moltiplicano le testimonianze e i romanzi delle donne sull’Olocausto. Storie nella storia della ferita più grande del Novecento, che tentano di far emergere le specificità dei vissuti femminili nell’esperienza dell’internamento e della guerra. Ci ha provato tra le prime nel 2011 Lucille Eichengreen, sopravvissuta a dodici anni di ghetti e a tre di campi di concentramento fino alla liberazione di Bergen-Belsen. Il suo “Le donne e l’Olocausto” (Marsilio), tradotto da Enrico Buonanno, è uno dei pochi memoriali concentrato esclusivamente sulle prigioniere, sulla straordinaria capacità femminile di formare micro-comunità solidali anche dove manca il minimo barlume di umanità. Di conservare intatta la speranza in mezzo alle fiamme dell’inferno.

Eichengreen racconta le compagne di sventura senza infingimenti: ci sono le nobilità e le miserie,  un passato che non si dimentica e un futuro che nonostante tutto non si abbandona mai come orizzonte. “Molti anni dopo, per caso – racconta – incontrai la dottoressa Gisa a New York. Ora esercitava presso il reparto maternità di un ospedale. Non parlammo subito del passato. Ci guardammo l’una con l’altra in silenzio, ripensando entrambe ad Auschwitz, a Sasel e a Bergen-Belsen. Fu lei a rompere il silenzio: ‘Faccio nascere i bambini. Sento che, dopo Auschwitz, Dio mi deve queste vite; dei bambini sani; dei bambini vivi'”.

Dita Kraus non ha avuto bambini da far nascere, ma ha avuto libri da sorvegliare. Ne “La libraia di Auschwitz” (Newton Compton), traduzione di Laura Miccoli, ripercorre le vicende che a 14 anni e mezzo la hanno portata diventare la sorvegliante dei “dodici libri o giù di lì” che costituivano la biblioteca nel Blocco 31, il Kinderblock dove i bambini stavano durante il giorno. Lì conoscerà Otto Kraus, che poi diventerà suo marito, educatore che a sua volta descriverà quegli anni terribili ne “Il maestro di Auschwitz”, uscito in Italia con lo stesso autore e la stessa traduttrice. Mantenere accesa nel buio la fiammella della cultura era il loro compito. “Ero più matura delle ragazze della mia età”, dice Dita di sé al ritorno a Praga. “Avevo visto in faccia la tortura e la morte; avevo imparato a essere poco appariscente, per non attirare l’attenzione degli uomini delle SS. Ero stata circondata da donne adulte che parlavano liberamente di questioni intime, eppure per certi versi ero ancora una bambina, immatura e ingenua”.
Una giovanissima deportata era anche Simone Veil, di cui il regista David Teboul ha raccolto ricordi e testimonianze in “Alba a Birkenau” (Guanda), traduzione di Silvia Sichel. Un meraviglioso viaggio per parole e immagini nella vita di una delle più straordinarie protagoniste della politica francese. “Una barriera invisibile separava gli esseri umani: c’erano quelli che tornavano dai campi e c’erano gli altri. Noi eravamo passate dall’altra parte”, afferma Veil del ritorno a Parigi da Auschwitz-Birkenau e da Bobrek con la sorella Milou. “Sono convinta che non siamo mai ridiventate normali”. Con Milou e con la madre, morta di tifo a Bergen-Belsen, Simone ha formato un piccolo nucleo d’amore e di resistenza dentro l’orrore. “Noi eravamo in tre, e questo ci salvaguardava. Ci sostenevamo a vicenda. Intorno a noi si formavano dei gruppetti, ma niente era più forte della famiglia”.
È un’immersione nella disperazione e nella distruzione, tra sofferenze, solidarietà e condivisione anche quella raccontata da Henriette Roosenburg nel suo “Ora che eravamo libere” edito da Fazi (traduzione di Arianna Pelagalli). Una storia della liberazione di quattro prigionieri politici olandesi alla fine della seconda guerra mondiale. Nelle 288 pagine c’è il racconto della sofferenza patita durante la prigionia a Waldheim, un piccolo villaggio della Germania sud Orientale. La voce narrante appartiene a Zip, giovane donna di ventotto anni. Assieme a lei si muovono le altre due protagoniste, Nell e Joke. Le seguiamo attraverso l’arresto e la prigionia, la sofferenza per i pasti razionati, le fette di pane conservate per la mattina successiva, l’attenzione per le prigioniere malate. Fino alla solidarietà che, appena giunta la notizia della liberazione, impedisce alle protagoniste di lasciare il villaggio dove sorge la prigione.

Colpisce il viaggio con Dries, “l’unica quota azzurra del gruppo”, marinaio di ventisei anni. Il racconto è fatto di sofferenze, scenari che mutano con la presenza dei russi che chiedono orologi ma non sanno caricarli e farli funzionare. Non manca mai però la speranza e la voglia di rientrare a casa. In Olanda, il paese rappresentato da quella bandiera che le tre donne riescono a cucire sulla borsa. Il viaggio con il carretto, le ospitate in spazi di fortuna, tra case e fienili, e quel viaggio tra mille peripezie e il ritorno a casa. E il regalo alla madre. Per non dimenticare la sciagura umana, la prigionia, il dolore.

Non basta un giorno per la memoria. Non basta il 27 gennaio. “Poiché la Shoah è una vicenda tragica che si è verificata grazie anche al consenso, all’omertà e ai pregiudizi di molti – dice Marilù Oliva ad Alley Oop – penso che bisogna prendersi del tempo per affondare nella Storia del Novecento”. Percorre tutto il secolo breve il suo nuovo romanzo “Biancaneve nel Novecento”, pubblicato da pochi giorni (Solferino). Duro e poetico, racconta attraverso gli occhi di due donne i segreti nascosti delle famiglie, il corpo femminile, la violenza a cui è sottoposto. Tra tutti, il bordello del campo di concentramento di Buchenwald, una realtà tra le meno trattate nell’ampia letteratura sulla Seconda guerra mondiale.

Nel romanzo due storie parallele si sviluppano in capitoli alternati, a specchio: Bianca, bambina che a Bologna negli anni 80 vive un’infanzia infelice e Lili, giovane francese reclusa che a Buchenwald è costretta a prostituirsi nei bordelli dei lager voluti da Himmler, che dava a internati ritenuti “meritevoli” e a kapo senza scrupoli una busta con cui abusavano dei corpi delle donne. Lo sdoppiamento narrativo permette a Oliva di percorrere gran parte del Novecento, dai crimini dell’Olocausto all’Italia di Ustica, della strage di Bologna, della banda della “Uno bianca”, della piaga dell’eroina.

Per quante generazioni dura il male? Inevitabile la domanda. Il dubbio si scatena quando si apre l’armadio di famiglia, pieno di segreti che il tempo non cancella, tra cui la maternità e le sue varie sfaccettature: accettata, rifiutata, conquistata. Le vicende di Bianca e di Lili, gli intrecci tra le generazioni, danno voce al rimosso di un secolo“Volevo creare un collante – afferma Oliva – tra la storia che viviamo tutti i giorni, e la grande Storia, quella che crediamo ci sormonti ma in realtà ci affianca quotidianamente, soltanto talvolta non ce ne accorgiamo perché siamo troppo distratti dalle incombenze dell’esistenza e dei nostri guai”. 

Proprio le storie nella storia sono quelle raccontate da Lia Levi in “Ognuno accanto alla sua notte”, appena uscito per le edizioni e/o. Il titolo, un verso di una poesia di Paul Celan, sembra alludere al peso delle ombre che agitano il passato dei tre “narratori” (Gisella, Doriana e Saul), compagni di un corso d’inglese che si ritrovano in una casa di campagna per studiare. I ricordi che si scambiano sono tutti ambientati nel ghetto ebraico di Roma all’epoca dell’entrata in vigore delle leggi razziali: quello di un commediografo ebreo costretto a lavorare in clandestinità, della breve storia d’amore tra una ragazza ebrea e il figlio di un gerarca fascista, del rapporto conflittuale tra un giovane e suo padre, autorevole esponente della comunità ebraica negli anni 40.

L’autrice, già vincitrice del Premio Strega Giovani 2018 con “Questa sera è già domani”, affianca al discorso sulla memoria quello cruciale della responsabilità. Non si sottrae all’operazione faticosa di mettere in scena le crepe che hanno segnato quell’epoca, le sottovalutazioni, il tentativo ostinato di trovare razionalità dove non c’era, l’illusione che gli ebrei romani sarebbero stati salvati dalla furia nazista. Come nel libro di Oliva, anche qui è nel filo rosso tra le generazioni, nel rimando continuo tra gli errori del passato e il dolore del presente, che la memoria si fa materia viva. “La memoria – dice Fiammetta – non è un imperativo, un obbligo morale. È il pane di cui continuiamo a nutrirci come sempre. Stesse domande, dubbi, oscurità e sprazzi vivificati”.

* Hanno collaborato Davide Madeddu, Filomena Spolaor e Manuela Perrone

*****

Titolo: “Le donne e l’Olocausto”
Autrice: Lucille Eichengreen
Traduttore: Enrico Buonanno
Editore: Marsilio
Prezzo: 14 euro

Titolo: “La libraia di Auschwitz
Autrice: Dita Kraus
Traduttrice: Laura Miccoli
Editore: Newton Compton
Prezzo: 12 euro

Titolo: “Alba a Birkenau”
Autrice: Simone Veil (testi raccolti da David Teboul)
Traduttrice: Silvia Sichel
Editore: Guanda
Prezzo: 19 euro

Titolo: “Ora che eravamo libere”
Autrice: Henriette Roosenburg
Traduttrice: Arianna Pelagalli
Editore: Fazi
Prezzo: 18 euro

Titolo: “Biancaneve nel Novecento”
Autrice: Marilù Oliva
Editore: Solferino
Prezzo: 19 euro

Titolo: “Ognuno accanto alla sua notte”
Autrice: Lia Levi
Editore: edizioni e/o
Prezzo: 18 euro