“Nel momento della vittoria di un atleta non si vede quasi mai il suo allenatore: sul podio non sale, la medaglia non la indossa, le telecamere raramente lo inquadrano. Eppure, senza allenatore, non nasce un campione: occorre qualcuno che scommetta su di lui, che ci investa del tempo, che sappia intravedere possibilità che nemmeno lui immaginerebbe. Che sia un po’ visionario, oserei dire. Non basta, però, allenare il fisico: occorre sapere parlare al cuore, motivare, correggere senza umiliare. Più l’atleta è geniale, più è delicato da trattare: il vero allenatore, il vero educatore sa parlare al cuore di chi nasce fuoriclasse. Poi, nel momento della competizione, saprà farsi da parte: accetterà di dipendere dal suo atleta. Tornerà in caso di sconfitta, per metterci la faccia”
Papa Francesco sul “La Gazzetta dello Sport” (2 gennaio 2021)
Mi è tornato in mente l’allenatore che mi ha cresciuto nelle giovanili di una piccola squadra di provincia e poi ha saputo lasciarmi andare a giocare in serie A. Era sugli spalti l’anno che con la Como Nuoto, squadra dove lui mi ha spinto ad andare, siamo retrocessi dall’A1. Le parole che mi ha riservato a fine partita sono ancora ben stampate nei miei ricordi: “Ti ho visto crescere, ma non ho saputo darti tutto. Ti vedo migliorato, ti ho lasciato che non eri ancora un giocatore ma qui ti stanno aiutando a diventarlo, non mollare”. Sembrava prendersi la colpa del mio insuccesso. Come dice il Papa è tornato dopo una mia sconfitta, motivandomi a continuare e quasi provando a “mettere la faccia” sulla mia mancata vittoria.
Più forti ancora però risuonano le sue parole dell’anno successivo. Era ancora in tribuna a guardarmi quando, dopo un grandioso anno di A2, abbiamo vinto la partita che ci ha portati ai play off e che avrebbe potuto dare il via al nostro ritorno in A1: “Sono contento che qualcuno ti abbia saputo sostenere e accompagnare a diventare un giocatore più forte di come io ti abbia lasciato. Ti hanno insegnato e fatto crescere; continua così, so che sei in buone mani!”
Parlava al mio cuore, sentiva che il suo ruolo era stato quello di accompagnarmi fino a un certo punto del mio percorso; sapeva di aver passato il testimone della leadership della mia crescita ad allenatori e tecnici più preparati, che hanno saputo guidare il mio modo di essere “particolare e delicato da trattare” fino a rendermi un giocatore di serie A. Era stato un leader presente, un educatore che non temeva di parlare di sconfitta e dei limiti propri e altrui; un allenatore che aveva saputo consigliarmi in modo visionario e spingere la mia crescita anche oltre a dove lui stesso potesse portarmi.
Questo ci riporta ai grandi leader che si incontrano nel modo del lavoro, quelli veri, quelli che hanno la capacità talvolta visionaria di cogliere i punti di forza delle loro persone e di farle fiorire fino a renderle pilastri per la propria organizzazione. Quei leader che sanno anche farsi da parte e lasciare spazio a coloro che hanno fatto crescere, consapevoli che gli allievi sono ormai in grado di condurre l’organizzazione stessa verso mete che loro da soli non saprebbero raggiungere. Capi che sanno accettare che nei progetti, come nelle partite, arriva il momento in cui è importante farsi da parte e lasciare la scena a chi può condurre la squadra verso il successo. Guide che tuttavia non esitano a rientrare in gioco in caso necessità, che tornano per prendersi la responsabilità di un insuccesso e che sanno tenere forte in mano il cuore dei propri “campioni”.
E’ così, per esempio, che Javier Zanetti nella sua autobiografia descrive José Mourinho: “Lui è pronto a mettere il suo petto davanti alle critiche, a fare da parafulmine, ad attirare su di sé le polemiche, le prese in giro e anche gli insulti, se questo può servire alla serenità della squadra“.
Leader, ma soprattutto persone, che sanno esattamente quello che vuole dire il Papa:
“vincere e perdere sono due verbi che sembrano opporsi tra loro: a tutti piace vincere e a nessuno piace perdere. La vittoria contiene un brivido che è persino difficile da descrivere, ma anche la sconfitta ha qualcosa di meraviglioso. Per chi è abituato a vincere, la tentazione di sentirsi invincibili è forte: la vittoria, a volte, può rendere arroganti e condurre a pensarsi arrivati. La sconfitta, invece, favorisce la meditazione: ci si chiede il perché della sconfitta stessa, si fa un esame di coscienza, si analizza il lavoro fatto. Ecco perché, da certe sconfitte, nascono delle bellissime vittorie: perché, individuato lo sbaglio, si accende la sete del riscatto. Mi verrebbe da dire che chi vince non sa che cosa si perde.”
Ed è qui che si scorge il cuore agile della leadership che sa “lasciar andare” i propri campioni e tornare al loro fianco quando hanno la necessità di essere supportati; è qui che si vede il cuore pronto al cambiamento della capacità di condurre, che non sente il bisogno di essere sempre in prima linea ma riconosce che, in alcuni frangenti, la palla debba passare a chi in quel contesto può fare la differenza.
La nuova flessibile leadership pone la sua essenza nel saper quando essere anche follower del proprio team comprendendo quando sia opportuno lasciar spazio alle proprie persone e quando invece sia necessario tornare alla guida del gruppo.
E allora, seguendo lo spunto d’ispirazione del nostro pontefice e facendo tesoro della metafora sportiva, proviamo in questo 2021 a riconoscerci allenatori, giocatori, insomma campioni, cercando di fare la differenza in tutti gli ambiti di questa difficile ripartenza.