Quanti in questi mesi di sospensione fra lockdown e ripresa hanno pensato, sognato o solo accarezzato l’idea di cambiare vita? Dalla casa alla città in cui si abita, dal compagno/a di una vita al lavoro si è messo in discussione parte del nostro mondo.
Ma soprattutto sul lavoro, anche non volendo, nel futuro si vivranno diversi cambiamenti e per capire dove andremo bisogna partire dai numeri che conosciamo. La Figura 1 rappresenta il numero di occupati in valori assoluti (migliaia) dal 2006 al 2019 in Italia.
Prof, ma a guardare il grafico sembra che non succeda mai niente …
I dati rappresentati nel grafico sono dati di stock; per evidenziare i cambiamenti sono più adatti i dati di flusso, cioè i dati riferiti alle entrate e alle uscite che determinano le variazioni dello stock e permettono di calcolare le probabilità di passaggio tra una condizione e l’altra. Questi dati sono appena stati rilasciati in via sperimentale da Eurostat per tutti i Paesi dell’Unione Europea.
Ad esempio, nella figura 2 possiamo osservare, per ciascun Paese, la probabilità di una persona che è in cerca di occupazione nel 2018 di essere ancora tale nel 2019. Si nota che la situazione italiana (39%) non si discosta in modo significativo dalla media europea (41%), ma in generale la differenza tra Paesi è molto marcata: ad esempio, in Grecia, la probabilità di restare disoccupati per coloro che erano disoccupati l’anno precedente è pari all’80%, mentre in Danimarca e Olanda scende al 20%.
I dati sulle transizioni sono utili perché ci forniscono informazioni aggiuntive rispetto ai dati di stock; ci dicono, ad esempio, da dove vengono e dove vanno le persone che entrano ed escono dall’occupazione.
In Italia, tra il 2018 e il 2019, 1.690.000 individui sono entrati nell’occupazione: la maggior parte di loro (1.011.000) è arrivata direttamente dalla condizione di inattività (studenti, casalinghe, pensionati, neet, ecc.), senza passare dalla condizione di persona in cerca di occupazione (o restandoci meno di 12 mesi); la parte rimanente (679.000) ha trovato lavoro in corso d’anno, passando così dalla condizione di persona in cerca di occupazione a quella di occupato. Al tempo stesso, 1.554.000 persone sono uscite dall’occupazione passando all’inattività (1.083.000) o alla disoccupazione (471.000). A seguito di queste transizioni, il verso del flusso netto, cioè il saldo tra le entrate e le uscite, risulta positivo, e fa crescere, sia pure di poco, lo stock degli occupati (136.000 unità in più).
Nella Tabella 1 possiamo osservare le differenze di genere nella mobilità tra stati.
Il tasso di femminilizzazione, rappresentato nell’ultima colonna, evidenzia il fatto che donne e uomini seguono percorsi diversi per entrare e uscire dall’occupazione, e questi differenti percorsi rendono più difficile per la componente femminile entrare nell’occupazione, e più facile uscirne. Le donne sono infatti il 48% dello stock dei disoccupati, ma sono solo il 46% di coloro che in corso d’anno trovano lavoro, e soprattutto sono la maggioranza assoluta (54%) di coloro che passano direttamente dalla disoccupazione all’inattività, rinunciando, per scoraggiamento, alla ricerca di un lavoro che non si trova.
Anche il percorso per uscire dall’occupazione risulta più facile per la componente femminile: le donne sono il 43% dello stock degli occupati, ma la loro quota sale al 46% tra coloro che passano dall’occupazione alla disoccupazione e soprattutto sale al 49% tra coloro che passano dall’occupazione all’inattività, cioè alla condizione delle persone che avendo perso il posto rinunciano a cercarne un altro, ed escono dal mercato del lavoro.
Prof, ma l’avevamo già detto che le donne sono svantaggiate sul mercato del lavoro …
Sì, e adesso lo confermiamo alla luce dei dati di flusso. E, con questi dati, possiamo mettere in evidenza anche un aspetto controintuitivo della mobilità tra stati. Quando la disoccupazione femminile diminuisce, non è necessariamente un bene; la riduzione dello stock potrebbe infatti derivare dal flusso netto verso l’inattività, a significare che le donne che seguono questo percorso considerano la probabilità di trovare lavoro così bassa che non vale la pena di restare sul mercato, impegnando tempo e denaro in una ricerca tanto frustrante quanto vana (effetto scoraggiamento).
Per contro, un aumento della disoccupazione femminile non è necessariamente un male, se deriva dal flusso netto delle persone inattive nel periodo precedente che si mettono in cerca di occupazione, perché in questo caso la loro decisione può indicare che il sistema economico è in fase di ripresa, e che pertanto le opportunità di lavoro sono maggiori, e le persone sono più fiduciose sulle probabilità di successo della loro ricerca di un posto di lavoro.