Ricordi sbocciavano le viole / Con le nostre parole / Non ci lasceremo mai / Mai e poi mai / Vorrei dirti, ora, le stesse cose / Ma come fan presto, amore / Ad appassire le rose / Così per noi.
Non è Vittoria Baruffaldi di C’era una volta l’amore ma, come i più avranno inteso, Fabrizio De Andrè ne La canzone dell’amore perduto. In comune i due hanno la levità, l’argutezza e l’argomento: l’amore che inizia e, come tutto in questo mondo, finisce. Se è vero che la filosofia nella sua storia millenaria ha talvolta cercato antidoti e statuito distinguo, i filosofi – che la filosofia la fanno ma non la vivono – si sono mostrati umani, tanto umani, simili a noi.
Per le pagine della Baruffaldi ci imbattiamo nelle delusioni della giovane Eloisa, malamente sedotta da Abelardo, e rimaniamo attoniti nel seguire la serie di amorazzi di Simone de Beauvoir. Con lei Hannah Arendt, Lou von Salomè e tutto il maschile sciatto o meno, ma sempre fallimentare, che le ha accompagnate.
A fare da collante all’incedere quasi barthesiano, la storia di una donna che trova l’amore, lo perde e lo ricerca, in un continuo ritorno. Chi sia questa donna non lo sappiamo, ma l’autrice si rivolge a lei in seconda persona singolare e questo tu ricorda la perla che Keller ha dato alle stampe un paio di anni fa: Veloce la vita di Sylvie Schenk.
Il cuore – scrive quasi in chiusura l’autrice – come le spazzole termiche brucia, tira e, soprattutto, punge, ma pare che lasci la possibilità di una vita setosa e brillante. Difficile dire se sia vero, ma perché no?
C’era una volta l’amore è un saggio agile, un’opera di no fiction che sarà di utile conforto a tutte le lettrici, ma anche una lettura ironica per gli uomini interessati a guardarsi oltre lo specchio. Una penna felice quella della Baruffaldi e molto più narrativa del primo e forse più urgente Esercizi di meraviglia.