La rete si anima alla notizia che la prima ministra finlandese è una donna di 34 anni: il capo di governo più giovane del mondo è una donna, figlia di due donne, madre di una bambina. Una storia tutta al femminile, che la prima ministra non vuole in alcun modo cavalcare – la parola d’ordine sembra essere “normalizzare”: una donna (più quattro, così è la coalizione) alla guida di un Paese non deve più fare notizia! – ma è anche una storia che le appartiene inevitabilmente e che inevitabilmente porterà in giro con sé, in tutto quel che fa e dice ed è.
E’ inevitabile, infatti, che le prime donne a rompere il soffitto di cristallo diventino dei simboli, caricandosi – oltre al resto – anche il peso di dimostrare se e come è possibile farcela, e farcela in modo “diverso”.
Neanche a farlo apposta, due settimane fa mi trovavo davanti a circa duecento rappresentanti di un partito politico: nella prima fila di sinistra c’era la “dirigenza”, tutta maschile, in quella di destra le passionarie che tengono duro da anni, e che ritrovo ogni volta piene di energia, nonostante le continue batoste a qualunque aspirazione di parità reale e tangibile. Non è stato difficile provocare e scaldare gli animi della platea chiedendo semplicemente:
“Vivrò abbastanza per vedere un capo di Stato donna in Italia?”.
La risposta purtroppo non è certa. In una recente intervista, l’unica leader di partito nota in Italia, Giorgia Meloni, parlando del fatto di essere donna diceva di aver trovato più ascolto dai politici di destra che da quelli di sinistra. In effetti, l’unico politico salito al Colle a marzo del 2018 accompagnato da donne, se ben ricordo, è stato Berlusconi, mentre il PD, la Lega e i 5 Stelle hanno tenuto il profilo unico “del pantalone”.
Così, la notizia della prima ministra Sanna Marin scuote un po’ (ma appena un po’) gli animi sopiti delle donne italiane, che si domandano se queste cose avvengano solo in Nord Europa. Sappiamo che non è così: diversi Paesi dell’Est Europa – come la Croazia, la Serbia e la Slovacchia – oltre all’Austria, il Belgio, l’Estonia e la Germania, per qualche tempo anche il Regno Unito, hanno avuto o hanno ancora il piacere di veder usato il bagno delle signore da un primo ministro.
E allora perché l’Italia no? Le cittadine di questo che è, vergognosamente, il 118° Paese al mondo per partecipazione economica delle donne, seguono a grandi linee tre correnti di pensiero:
1) quelle che pensano che tanto in Italia non cambierà mai nulla, anche perché sono le donne stesse a farsi la guerra le une con le altre, poi abbassano gli occhi e tornano a tirare la carretta e a domandarsi sotto voce se comunque, se ne avessero l’opportunità, sarebbero all’altezza;
2) quelle che dicono che è la stessa cosa: non importa di che sesso sei, importa quanto sei bravo, importa il merito, e basta con questa storia delle quote;
3) quelle che si accorgono che non avere donne in posizioni decisionali non è solo un problema di per sé – perché le istanze, le esperienze e le conoscenze di metà della popolazione italiana non sono rappresentate laddove si decide – ma è anche il segnale di un sistema in stallo, che non è in grado di cambiare insieme alla società: in cui le resistenze sono quindi nettamente più forti del movimento dei tempi e dei costumi.
Queste persone sanno che alcuni dei sintomi di questa patologia sono visibili, come l’affanno e l’invisibilità delle donne in Italia, ma altri lo sono meno e non sono per questo meno pericolosi. L’Italia, insomma, è al palo, e non avere donne primo ministro è solo uno dei sintomi più evidenti della nostra incapacità di andare avanti.