Come tutti i genitori, anch’io a un certo punto ho dovuto decidere se comprare il cellulare a mia figlia e quando. E’ stata tra le ultime della sua classe (quinta elementare) ad averlo, qualche settimana prima di compiere undici anni.
Fino alla fine dell’estate tutto abbastanza bene: mi faceva sentire sicura sapere che poteva chiamarmi o scrivermi quando eravamo lontane, mi sembrava che la vita in vacanza fosse un buon argine ai giochi elettronici, a cui poteva dedicare trenta minuti al giorno; ogni tanto ci scappava qualche predica e la sua reazione era positiva. Poi è andata in prima media.
Dai trenta minuti al giorno di “gioco” – il passatempo preferito è in realtà guardare video su Youtube in cui a giocare sono altri – siamo passati a Whatsapp sempre acceso “per i compiti”, ma sarebbe meglio dire che nella chat di classe si parla di qualsiasi cosa con tutti, e tutti commentano, al ritmo di centinaia di messaggi all’ora.
So esattamente quanto tempo passa mia figlia sul cellulare e a fare cosa. Ho installato infatti un’app di monitoraggio e controllo che si chiama Qustodio, che ogni mattina mi manda un report della giornata precedente. Attraverso Qustodio, ho potuto bloccare alcuni siti e mettere delle restrizioni orarie all’uso delle varie funzioni. Ho iniziato con due ore al massimo di whatsapp al giorno, 30 minuti di youtube, proibiti TikTok, Facebook e altri social. Non bastava: mia figlia riusciva a continuare a sbirciare Whatsapp anche da bloccato – si mandano soprattutto messaggi vocali, e basta un clic sullo schermo bloccato per avviarne uno – ho ridotto a un’ora e mezzo al giorno, le ho detto che i compiti può farli in altri modi, che possono telefonarsi…
Ma io non voglio fare questo mestiere qui. Non sono diventata madre per fare la “guardiana del cellulare”. Non voglio dare regole prepotenti a una bambina di cui mi voglio fidare, non è giusto.
Ma non è nemmeno giusto lasciarla sola con un oggettino che racchiude il mondo intero: infinitamente più stimolante di qualsiasi gioco da tavolo, più coinvolgente di qualunque amico reale, e che – è risaputo – crea dipendenza. Non voglio nemmeno farla diventare “quella strana” dei suoi compagni, quella che non può vedere i messaggi, che è “tagliata fuori”. D’altronde che cosa fanno gli adulti appena hanno due minuti liberi? Non mettono forse subito la testa nel cellulare? Un’email, un giro su Instagram, una previsione del tempo, un messaggio, una notizia…? Siamo pronti a smettere, perché anche i nostri figli smettano?
Gliel’ho detto. Le ho detto che non è così che voglio fare la mamma. Che piuttosto glielo tolgo del tutto, e non come rimostranza ma per sentirmi libera di essere la mamma che vorrei essere. Poi ho messo regole strettissime. Lasciare il telefono a un adulto quando arriva a casa. Guardarlo solo nel tardo pomeriggio, nella sua mezz’ora digitale. Poi restituirlo. Altro sguardo prima di andare a dormire e poi via, lontano dal suo letto: lo gestisco io. Dobbiamo trovare una soluzione per la musica, che di solito ascolta facendo i compiti. Dobbiamo vedere quanto reggeranno queste regole, che di solito la realtà della vita quotidiana fa saltare a una a una.
Non siamo preparati a questo. Non sappiamo che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.
Sappiamo di non sapere e sappiamo di illuderci anche un po’, come conferma una ricerca condotta dall’università Bocconi e dall’università di Padova insieme all’associazione ImparaDigitale, che viene presentata oggi agli Stati generali della scuola digitale a Bergamo: il fenomeno è così grande che ne abbiamo tutti percezioni diverse e finiamo col sentirci sulle barricate “contro” i nostri figli.
Il digitale è più grande di noi: la sua mostruosità sta nell’illusione della sua gratuità. Apparentemente paghiamo solo degli abbonamenti internet sempre più economici, nei fatti stiamo pagando con ciò che abbiamo di più prezioso: il nostro tempo e quello dei nostri figli.