La mostra del cinema di Venezia, nella sua 76esima edizione appena conclusa, ha offerto non poche occasioni per riflettere sui rapporti familiari, la genitorialità e l’adolescenza.
Uno dei film più interessanti, per originalità e capacità di generare turbamento nello spettatore, è stato “Madre” del regista spagnolo Rodrigo Sorogoyen. Nato da un cortometraggio candidato agli Oscar di quest’anno e premiato a Venezia per la miglior interpretazione femminile, il film sarà presentato a Milano nella rassegna “Le vie del cinema”, dal 18 al 26 settembre, prima di essere distribuito nelle sale.
L’inizio è subito carico di tensione. Un bambino, Ivàn scompare mentre è su una spiaggia della Francia, quando ha sei anni. A nulla serve l’ultima telefonata alla madre Elena, rimasta in città, narrata attraverso un interminabile piano sequenza: non a capire quale sia la spiaggia in cui si trova, né dove sia andato il padre che fino a poco prima era con lui. Si capisce solo che la spiaggia è deserta, che uno sconosciuto si sta minacciosamente avvicinando e che il cellulare si sta scaricando, fino a spegnersi. A questo punto il regista decide di spostare il focus: non ci racconta delle indagini o della ricerca del bambino, né del dolore straziante della madre. Ci fa fare invece un salto temporale, per capire cosa sia successo a questa donna a dieci anni dalla scomparsa del figlio.
Elena, infatti, su quella spiaggia della Francia ha deciso di andare e vivere e proprio lì, una mattina, incontra Jean, sedicenne che assomiglia al suo Ivàn. Sorogoyen sceglie di soffermarsi sul lutto complicato di Elena: lo stato di sospensione, gli spettri e i silenzi, le rigide routine e i sentimenti ibernati. Le madri che hanno vissuto la scomparsa del proprio figlio o un lutto traumatico in terapia raccontano di vite non vissute, di un dolore che non può essere contenuto nella mente, di blocchi emotivi, di un senso di colpa da espiare che può portarle a mettersi in stand by o, al contrario, in situazioni di pericolo. Alla sensazione che il figlio ci sia, che sia ancora vivo, può accompagnarsi una ricerca affannosa di qualcuno o qualcosa che possa riempire quel vuoto.
Il regista ci racconta di questo avvicinamento tra una quarantenne e un sedicenne tenendoci in bilico tra polarità opposte quali amicizia/amore, protezione/seduzione, vittima/colpevole, candore/morbosità. Elena trasferisce gli sguardi tipici della maternità – quello stare adoranti davanti al proprio bambino che dorme, sentirne il respiro, incantati dalla sua bellezza – su un adolescente. Il film dunque inizia con una scarica di adrenalina potente, per poi costringerci a camminare lungo un crinale scosceso e scivoloso. Si passa da momenti di profonda comprensione per questa donna, “la pazza della spiaggia”, ma si può arrivare anche inaspettatamente ad odiarla. Cosa sta facendo? Come affronta un’assenza inaccettabile? Cerca di ridare un volto al suo bambino scomparso? Non comprende le conseguenze delle sue azioni e i fraintendimenti che generano?
Un ritrovamento, nel corso della narrazione avviene: è quello di emozioni che sembravano congelate per sempre. Il tempo della vita per Elena riprende il suo corso, complici forse una nuova consapevolezza della perdita, un ritorno al presente, l’avvio di un percorso di accettazione. Nel film assistiamo all’effetto trasformativo di un incontro che costringe a confrontarsi con la verità dell’esperienza e aiuta a rendere pensabile l’impensabile.
E’ un film bello e scomodo quello di Sorogoyen, regista coraggioso, capace di avvicinare sfumature e ambivalenze con grazia e sensibilità. Madre può essere sintetizzato con le splendide parole di Alda Merini: “A volte succedono cose strane, un incontro, un sospiro, un alito di vento che suggerisce nuove avventure della mente e del cuore. Il resto arriva da solo, nell’intimità dei misteri del mondo”.