Roger Ballen: fotografare le regioni oscure della mente

 

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Roger Ballen, Alter Ego 6066, 2010. © Roger Ballen

Specchio dotato di memoria: è una delle più famose definizioni della fotografia. Ma cosa succederebbe se, guardandoci allo specchio, magari al mattino appena alzati o distrattamente durante la giornata in un ascensore o in una vetrina, scoprissimo nell’immagine riflessa fattezze diverse e aspetti inauditi? Che choc ne avremmo?

È un effetto simile quello che ci lasciano le straordinarie foto di Roger Ballen, esposte alla Fondazione Sozzani nella mostra Roger Ballen the body, the mind, the space. L’aggettivo straordinario dev’essere inteso nel suo senso più pregnante: la capacità di Ballen di creare immagini che fuoriescono dai canoni di quella che siamo soliti chiamare normalità è infatti unica e ne fa uno dei maggiori fotografi contemporanei, che ha saputo dare forma a un inimitabile universo espressivo, uno scenario multiforme, inusuale e perturbante. Basta uno sguardo alla foto di apertura per entrare in quest’atmosfera per la quale ha coniato l’etichetta di “Ballenesque” (che è anche il titolo della grande monografia sulla sua opera pubblicata da Thames and Hudson nel 2016): un luogo dove i confini e le definizioni che ci aiutano a orientarci nel mondo sembrano sospesi e le stesse distinzioni fra immagine e realtà, rappresentazione e invenzione perdono senso.

La stessa biografia di Roger Ballen, americano nato a New York nel 1950, è affascinante: dopo essersi laureato in psicologia a Berkeley viaggia a lungo, quasi sempre a piedi, attraverso Asia e Africa, esperienza alla base del suo primo libro fotografico. Rientrato negli Usa ottiene un dottorato in Economia dei minerali nel Colorado e si trasferisce nel 1981 a Johannesburg, dove lavora come geologo: il suo incarico è di ricercare nuovi giacimenti minerari, il che lo porta a percorrere negli anni più di 300.000 chilometri attraverso le zone meno note e periferiche del paese, scoprendo così un complesso mosaico di realtà e stili di vita. Ballen si afferma come grande fotoreporter con importanti libri nella tradizione della fotografia documentaria, che esplorano le remote comunità rurali del Sud Africa e la classe dei bianchi africani, demistificandone con implacabile ironia la presunta condizione di privilegio apparentemente garantita dall’apartheid. Ma non è questa pur importante produzione quella che ne ha consacrato il talento.

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Roger Ballen, Cat Catcher, 1998. © Roger Ballen

Nel corso degli anni ’90 la sua concezione della fotografia si evolve profondamente: “Realtà è una parola che non ha significato per me. È insondabile” dice Roger e infatti per questa sua nuova fotografia ricorrre alla definizione, ambigua e rivelatrice, di “finzione di documentazione”. Diventa centrale per Ballen il rapporto con le persone, che non sono più gli occasionali soggetti in cui ci si imbatte durante un reportage, ma individui che vivono ai margini della società, irriducibili ai canoni di rispettabilità e normalità, con i quali il fotografo stabilisce un legame e una duratura relazione personale e artistica, facendone i protagonisti di immagini che perdono via via il loro aspetto descrittivo e narrativo, trasformandosi in luoghi e situazioni di una sorta di realtà parallela. Sono gli anni di Outland (2000) e dell’affermazione internazionale: nel 2002 uno degli eventi più importanti della fotografia mondiale, i Rencontres Internationales di Arles, lo incorona Fotografo dell’anno.

Si verifica ora nella sua opera una dislocazione nuova dello sguardo, che trascura gli aspetti visibili del reale per un percorso verso l’interno dell’uomo, facendo della lente fotografica uno scandaglio di profondità: il bianco e nero polveroso e sporco e il formato quadrato diventano la cifra formale delle sue fotografie e quasi l’unico elemento stabile in un avvicendamento incessante di situazioni continuamente in bilico tra palcoscenico teatrale, backstage circense, stanza di manicomio e baracca da clochard.

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Roger Ballen, Prowling, 2001. © Roger Ballen

“Una sfida importante nella mia carriera è stata quella di individuare l’animale nell’essere umano e l’essere umano nell’animale.” Questa frase ci indica la direzione nella quale Ballen orienta la propria ricerca, vale a dire una continua esplorazione del territorio che chiamiamo umano e dei suoi limiti, da cui deriva per esempio l’onnipresenza degli animali: uccelli delle più varie specie, cani e gatti, ma anche maiali, topi, serpenti e rettili. Nelle sue foto incontriamo persone (spesso mascherate), animali, manichini e oggetti insoliti, nascosti da teli e stracci, mescolati e aggrovigliati tra loro, sovente accostati a fili elettrici, appendiabiti, arredi vecchi e in rovina; e ci immergiamo in storie che si svolgono sempre in interni, sporchi, logori e caotici, dove un ammasso di oggetti disparati, un bric à brac da rigattiere diventa una macchina delle sorprese nella quale è possibile scambiare un animale impagliato con uno vivo, una bambola con una bambina in carne e ossa o confondere una maschera e un volto.

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Roger Ballen at Fondazione Sozzani. foto Chiara Gussoni 2019

I confini che Ballen abbatte non sono solo fra esseri viventi e inanimati, ma anche fra linguaggi, perché Roger affianca alla fotografia il disegno, la scultura e il video, per creare un’opera visuale totale: nella mostra, oltre alle tre serie fotografiche “The body, the mind, the space”, un’installazione realizzata dall’artista crea lo scenario e l’atmosfera di un interno ballenesque, che accoglie il visitatore segnalando che non sta semplicemente entrando a visitare una mostra, ma sta varcando una soglia che immette in un altro spazio. In Sozzani ci sono anche due brevi film: Roger Ballen’s Theatre of Apparitions (2016) e Ballenesque (2017) nei quali disegno e pittura, fotografia e scenografia si fondono in un linguaggio personalissimo, complesso e di grande suggestione.

Un’ulteriore conferma della versatilità della sua arte ce la da la sua regia per I Fink U Freeky (2012), canzone della band hip hop sudafricana Die Antwoord: per quanto possiamo essere ormai abituati a eccessi visivi di ogni sorta nei video musicali, difficilmente ne ricordiamo uno così potente e allo stesso tempo inconfondibile.

Un mondo cupo? Non necessariamente, perché l’ombra e l’oscurità non sono per forza negativi, piuttosto segni che indicano che ci si sta muovendo verso “un luogo difficile da raggiungere”, sul quale Ballen aggiunge: “ho impiegato molto tempo non solo per arrivarci, ma anche per definirlo visivamente”. Tempo ben speso, se accettiamo di spodestare la mente dal ruolo di guida e lasciamo che le sue immagini agiscano sotto pelle, abbandonandoci ai sensi e alle emozioni: è probabile che ne avremo una sensazione disturbante, perché non è piacevole stare in compagnia del nostro “divided self”.

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Roger Ballen, Divided self, 2007. © Roger Ballen