Di padre in figlia. Quando un’azienda passa nelle mani delle donne

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È l’ultima di quattro fratelli, l’unica figlia femmina. L’anno scorso Chiara Coricelli a 37 anni è diventata amministratrice delegata dell’azienda di famiglia, un’impresa olearia fondata nel 1939 dal nonno Pietro, arrivata alla terza generazione che esporta in oltre 110 Paesi del mondo.

Il suo non è un caso isolato, anche se bisogna ammetterlo, i dati sulle donne ai vertici delle imprese in Italia non sono ancora confortanti. Secondo il rapporto annuale ISTAT 2017, in Italia soltanto il 12,2% del top management è donna.

Le imprese familiari in Italia rappresentano l’82% del totale. Il 63% degli eredi che prendono in mano le redini dell’azienda sono uomini con un età media varia tra i 41 e i 55 anni. Il potere nelle aziende passa ancora di padre in figlio, non mancano però segnali incoraggianti di un cambiamento già in atto.

La ricerca Top 500+, promossa da Assolombarda, Confindustria Milano Monza e Brianza, in collaborazione con PwC e realizzata nel 2016 dal Cerif (Centro di Ricerca sulle Imprese di Famiglia) ha indagato sulla successione al femminile. Su 52 imprese familiari analizzate appartenenti a uno dei tessuti territoriali più produttivi d’Italia, il 29% ha scelto un’erede donna.

«Sono pochi i casi – dice lo studio – in cui le donne non sono state coinvolte nella gestione dell’azienda o in parti di essa. Nel 61,54% di tutte le successioni analizzate all’interno della famiglia era presente un esponente femminile da poter inserire e al quale poter lasciare “le chiavi” dell’azienda. In quasi la metà dei casi ciò è avvenuto».

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Chiara Coricelli

Prendere le redini dell’azienda di famiglia per Chiara Coricelli è stata una libera scelta: «Nessuno mi ha forzata – dice – Ho studiato all’università Comunicazione d’Impresa perché mi piaceva senza pensare però di avere un destino predeterminato». Dopo la laurea è volata negli Stati Uniti dove, per un anno, ha lavorato a New York in un’azienda che produceva bottoni e altri piccoli accessori per importanti case di moda. «In realtà avevo due lavori. La sera facevo la guardarobiera in un ristorante a Tribeca – rivela Coricelli – Stavo cercando il mio posto nel mondo, la mia affermazione personale senza l’automatismo di un passaggio in azienda. Poi però ho deciso che era ora di tornare in Italia e lavorare con i miei fratelli. Ho sentito il richiamo delle radici, di tutti quei profumi e colori che ho respirato sin da bambina. Mi mancava Spoleto, la mia città, l’Umbria, la mia terra».

Coricelli inizia a lavorare in azienda nel 2005 a 25 anni: «Non volevo essere solo la figlia di. Ho iniziato dalle mansioni più basse per vedere tutti i passaggi del processo produttivo e avere un controllo totale delle attività dell’azienda. Volevo capirla nel profondo» spiega Coricelli che è anche brand ambassador dell’azienda sui canali social e in Tv: «Sono diventata portavoce della tradizione della mia famiglia. L’olio è un prodotto alla base della dieta mediterranea, un patrimonio dell’umanità che bisogna valorizzare. Io racconto al consumatore le nostre ricerche e l’innovazione».
Un lavoro su più fronti che ama profondamente.

Eppure, racconta, quando è arrivata la nomina come amministratrice delegata non ha neanche festeggiato: «Ero felicissima ovviamente, ma non l’ho fatto, perché è stato tutto molto naturale, una scelta spontanea compiuta con mio padre e i miei fratelli, tutti insieme, abbiamo la fortuna di avere una struttura in cui regna l’armonia, un Cda molto affiatato. Mio padre ci ha guidati e continua a consigliarci, ma si è staccato dall’operatività per darci modo di metterci alla prova».

E’ proprio il padre il modello di leadership di Coricelli: «La mia linea guida è stata lui, io ho però innovato il suo modo di fare impresa portando una maggior attenzione alla qualità del contesto lavorativo. Ora sto ultimando gli ultimi lavori alla nursey aziendale che ho voluto fortemente come un messaggio alle nostre dipendenti. Non abbiamo al momento delle neo-mamme, voglio però che le lavoratrici della nostra impresa possano vivere una loro eventuale maternità con tranquillità. È un segnale per dire loro che se decideranno di essere madri non dovranno rinunciare al lavoro. La maternità non deve essere percepita come un ostacolo o limite. Io ho due figlie e con la maternità sono esplosa. Sono diventata più rapida ed efficiente, secondo me c’è un miglioramento della performance lavorativa».

Welfare aziendale e non solo. Coricelli ha portato in azienda anche una visione green: «Abbiamo l’uliveto super intensivo vicino allo stabilimento che porta verde e ossigeno per abbattere le emissioni. Un impianto di cogenerazione che recupera l’energia dispersa, a livello produttivo stiamo studiando delle implementazioni per ridurre gli sprechi. Stiamo poi cercando di utilizzare solo cartone per gli imballaggi: l’obiettivo è eliminare la plastica. Da poco ho fatto ordinare delle borracce personalizzate per tutti i dipendenti che potranno riempirle d’acqua» afferma.

É una manager che non ha mai concepito il suo ruolo come una versione femminile del padre padrone: «Non è secondo me quello che fa bene alle aziende. Abbiamo bisogno di modelli di leadership più equilibrati. Le donne forse contribuiscono su questo versante. Siamo però ancora troppo poche. Penso che il vero scoglio da superare sia essere valutate senza pregiudizi e stereotipi solo su base meritocratica» chiosa Coricelli. Questo è forse uno degli snodi fondamentali.

«Le ultime ricerche dicono che rispetto al passato oggi la discriminazione di genere nei passaggi generazionali sembra avere meno rilevanza. Adesso gli imprenditori tendono a passare il testimone a uno dei figli, quello o quella più capace. Non mancano, tuttavia, casi in cui si continua a privilegiare il figlio maschio escludendo di fatto le donne. La regola della linea di successione maschilista spesso, infatti, rappresenta una norma non scritta ma fermamente rispettata. Quasi una contraddizione» dicono Michela Floris e Cinzia Dessì, ricercatrici in Economia e Gestione delle Imprese per il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università di Cagliari, specializzate in family business e questioni di genere: «Capita ancora quindi che le figlie femmine, talvolta più motivate e con più talento, siano la mente che idea le strategie aziendali anche se sono poi i fratelli o mariti ad assumere formalmente la guida delle imprese. Sono quelle che vengono chiamate co-leader invisibili».

Ad allontanare le donne dal potere entrano in gioco i condizionamenti culturali che le schiacciano e le frenano: «Succede ancora che le donne si tirino indietro se c’è da assumere il comando perché non si sentono adeguate, oppure rifiutano perché non riescono a conciliare impegni familiari e lavoro». Gli ostacoli di genere resistono: «I fattori antropologici e culturali sono determinanti, influenzano le modalità con cui le imprese familiari vengono organizzate e gestite. In linea generale c’è però un trend positivo. Un’evoluzione che ci deve far ben sperare. Finalmente si sta riconoscendo la giusta rilevanza alle potenzialità femminili e alla leadership delle donne all’interno dell’impresa».

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La presenza delle donne nei vertici e nei CdA nelle imprese familiari sembra dare poi un impulso positivo alle performance aziendali. Lo dicono i dati dell’Osservatorio AUB (AIdAF, UniCredit, Bocconi) che agli inizi di giugno ha dedicato uno studio proprio alla presenza delle donne nelle aziende familiari. Le imprese con almeno il 33% di donne nei Cda sono il 40%; le consigliere nei Cda sono il 21%, le aziende con un leader donna il 22%, una percentuale che scende però al 15% per le aziende con un fatturato di oltre 250 mila euro. Combinando la presenza di leader donna e di consiglieri donna superiori alla media lo studio ha individuato sette Regioni virtuose. Sono Emilia-Romagna, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Umbria e Veneto. È un incremento della presenza femminile che è avvenuta grazie anche la legge Golfo- Mosca che ha previsto le quote rosa nei Cda.

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«Il tema della valorizzazione del talento femminile è di grande attualità perché ė tuttora sotto-utilizzato» lo scrive Daniela Montemerlo, professoressa di Strategic Management in Family Businesses e Research associate della cattedra AIdAF-EY all’Università Bocconi, nel suo contributo: “Il ruolo delle donne nelle aziende”. Montemerlo parla di una diversity autentica che può portare un maggior numero di donne ai vertici: «In verità, troppo spesso si concentra l’attenzione solo sulla presenza quantitativa delle donne, con il rischio di rimanere alla superficie del fenomeno. La diversity si attua appieno quando si offrono pari opportunità autentiche e quando si lavora tutti, uomini e donne, familiari e non, senza prevaricazioni e senza auto-esclusioni a priori, per rendere le differenze un fattore di complementarità e non di antagonismo».

Anche Annapaola Trione, 41 anni, è un’amministratrice delegata che è arrivata ai vertici dell’impresa di famiglia l’Aircom, conosciuta a livello mondiale per la progettazione e produzione di pistole automatiche a spruzzo per i settori della conceria, del legno, del vetro, della plastica.

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Annapaola Trione

Trione, che ha ereditato il comando dal padre Giovanni, da piccola sognava di fare la reporter di guerra all’estero. Si è invece laureata in Economia e ha trascorso un periodo della sua vita, prima di entrare in azienda, nel Regno Unito: «In realtà pensavo dopo questa esperienza di vivere all’estero. Invece sono tornata in Italia per finire di di scrivere la tesi. Ho iniziato a lavorare in azienda. Venivo mezza giornata a dare una mano e poi da lì non ho più smesso. È stato un percorso che è venuto da sé con naturalezza. Senza nessun condizionamento. Mio padre mi ha lasciata libera di scegliere il mio destino come ha fatto con mia sorella, lei è farmacista. Io invece ho scelto di occuparmi di Aircom».

Il passaggio generazionale per Trione è stato facile: «Papà mi ha aiutata ad inserirmi e poi a darmi fiducia mentre prendevo le mie prime decisioni. Lui è un uomo lungimirante, sa guardare lontano. Quando ho bisogno di confrontarmi c’è sempre».

Il suo modello imprenditoriale è però Adriano Olivetti: «Forse è inevitabile abitando vicino a Ivrea. Si respira ancora oggi quel modello di welfare aziendale che aveva creato, l’attenzione ai dipendenti e al loro valore. Mi ha ispirato». Trione ha cercato di investire sul capitale umano aziendale. Ha predisposto dei buoni per i dipendenti che possono essere usati per frequentare palestre, musei o altre attività extra lavorative.
In azienda ha anche portato un’attenzione alla sensibilità ambientale per cercare di inquinare meno e il suo amore per il design: «I nostri prodotti made in Italy- spiega – devono essere performanti, ma anche belli. Abbiamo collaborato con dei designer industriali. Esportiamo in tutto il mondo dal Brasile agli Stati Uniti ed è importante che le nostre pistole siano in qualche modo riconoscibili».

Trione si muove in dei mondi a prevalenza maschile, quello delle aziende meccaniche e delle concerie: «Ammetto che soprattutto all’inizio non è stato facile. Sono diventata amministratrice delegata a 30 anni. Quando andavo dai clienti mi guardavano quasi con diffidenza perché ero donna e giovane. Ma quando poi parlavo, capivano che avevo competenze e passione e tutto il resto passava in secondo piano. Se sei brava lo sei a prescindere dal genere, però è anche vero che essere un’imprenditrice e una mamma, come nel mio caso, significa riuscire a conciliare lavoro e famiglia. È una sfida. Su questo versante l’Italia, bisogna ammetterlo è ancora molto indietro».