Una donna che lavora, è una risorsa, può raggiungere un’indipendenza economica in certi casi fondamentale per uscire da situazioni difficili. E numeri più alti di donne ai vertici delle aziende migliorano la redditività e più donne occupate portano a migliorare l’economia generale di un Paese. Frasi che si sentono ripetute da anni, eppure ancora oggi le donne sono peggio occupate, lavorano meno e, un po’ dovunque, si trovano spesso (costrette o per scelta) a preferire il part time.
Parlando di percentuali il numero più alto di lavoratori impiegati per meno di 30 ore settimanali si registra nei Paesi Bassi – secondo gli ultimi dati OCSE disponibili: nel 2017 erano il 37,4% del totale. Per dare una dimensione di questo primato, basta notare che in Svizzera, la nazione al secondo posto, si arriva al 26,7%, mentre in Italia, alcune posizioni più in basso, si raggiunge il 18,5%, un paio di punti sopra la media (16,5%). Guardando i numeri specifici divisi per genere, si vede quanto poi la forbice si apra: nei Paesi OCSE mediamente lavorano part time il 25,5% delle donne e il 9,2% degli uomini; in entrambi casi i picchi più alti si registrano sempre in Olanda (rispettivamente 58,7% e 18,9%), mentre il bel paese supera la media in un caso, con il 32,4% di donne, ma si ferma all’8,3% nell’altro, al di sotto, per esempio, di Messico o Namibia .
Il tema del lavorare un numero ridotto di ore ultimamente è mascherato e mescolato al concetto di “settimana breve” che renderebbe i lavoratori più felici, creerebbe più occupazione e risponderebbe anche al desiderio molto contemporaneo di avere più tempo da dedicare alla gestione della vita privata, degli hobby e dei bisogni primari. Da qualsiasi punto la si guardi o a prescindere da come la si definisca, stiamo comunque parlando di una riduzione di ore retribuite, magari solo per un periodo o come alternativa all’uscita completa dal mondo del lavoro.
Non si tratta per forza, comunque, di un vantaggio: anche nella civilissima Olanda dove l’alto numero di occupati part time è frutto tra l’altro delle politiche introdotte negli anni ‘80 per favorire proprio l’ingresso femminile al mondo del lavoro, non sono sparite le disparità di genere. Secondo uno studio sulla situazione olandese pubblicato lo scorso settembre 230mila donne potrebbero raggiungere l’indipendenza economica se lavorassero in media un minimo di 5 ore in più la settimana. Si colmerebbe così anche, si legge, la carenza di professionisti in ambiti come la sanità, l’insegnamento (casi specifici in cui basterebbe anche solo un’ora in più) e nel settore tecnologico.
Indubbiamente poter lavorare meno ore resta una medicina contro la disoccupazione o sotto occupazione soprattutto perché, potenzialmente, accompagna e facilita in alcune fasi particolari della vita. Diventa però anche uno strumento che acuisce il gap tra i generi e descrive un quadro simile un po’ ovunque: le donne sono generalmente più istruite, ma a parità di posizione, al primo impiego vengono pagate meno, si trovano molto presto maggiormente coinvolte dalle necessità di cura famigliare e più facilmente, quindi, sono propense (per non dire: costrette) a chiedere il part time se non proprio a licenziarsi. Un circolo vizioso che incide anche sulle loro prospettive di carriera e, in previsione, sulle loro pensioni: meno ore significano meno possibilità di raggiungere posizioni apicali, e meno guadagni a contributi versati ridotti.
Nonostante sia spesso citata come tale, il part time non rappresenta allora una cura risolutiva. E sembra essere uno strumento forse ancora più discriminante perché approfondisce le differenze di genere, ma anche quelle che si generano prestissimo tra lavoratrici madri e non, come evidenziato nello studio di Save the children “Le equilibriste” pubblicato a maggio 2019. Per quanto possa essere una scelta, resta la conferma di un modello di occupazione culturalmente non adatto ai tempi moderni. Oggi è sempre più evidente infatti che i padri per primi vogliono essere più coinvolti nella vita dei loro figli, le aziende conoscono il beneficio di team misti anche a livelli apicali, e sempre più nelle nuove generazioni crescono donne indipendenti che vivono come scontati i traguardi di lotte passate.
Siamo in una fase delicata: possibile superare l’ostacolo, ma è anche fin troppo facile fare passi indietro.