Part time o multi time? Dallo stigma del “lavoro parziale” alla “carriera portfolio”

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A un collaboratore intelligente, che da diversi mesi fatica a stare dietro a lavoro e vita privata, vorrei proporre il part time. Ma non so come farlo. Io lo riterrei naturale: non la richiesta di fare un passo indietro, ma la possibilità di “ridimensionare” i propri tempi in accordo con le esigenze della sua vita e del lavoro. Per vederlo più sereno e per permettergli (e permettermi) di usare meglio le sue energie, che oggi sembrano essere allo stremo. Sono convinta che un part time al 70% sarebbe una proposta sensata: potrebbe dire di no per motivi economici, ma potrebbe anche trovare un nuovo ritmo di vita, una combinazione più sostenibile tra pressione e ritorno economico.

Qual è lo stigma del part time? Perché, quando ne parlo con un altro mio collaboratore che si occupa di risorse umane, mi dice che una proposta del genere potrebbe suonare offensiva, come se svalutassimo la persona? Non ho meno bisogno di lui, ma ne ho bisogno meglio. Lo vorrei meno affannato e sono certa che la sua produttività potrebbe guadagnare in qualità rinunciando a un po’ di quantità. In realtà, se devo dirla tutta, dall’uso del part time mi aspetterei proprio questo: maggiore attenzione e impegno grazie a un focus più circoscritto, come se la riduzione di orario potesse essere un confine più facile da difendere (dallo stress) e al cui interno far fiorire progetti di maggiore qualità. Sappiamo che, culturalmente, in Italia non è così.

Part time uguale donne, uguale mamme, uguale fine delle prospettive di carriera. Più da noi che ovunque altro in Europa.

citrus-citrus-fruit-close-up-1433486Sono part time il 32,8% delle donne e solo l’8% degli uomini, e nella maggior parte dei casi (62,5%) è un part time “non scelto”. Ma il part time non deve essere solo un “ripiego” familiare: hanno molti interessi e dimensioni personali anche persone che non hanno figli o genitori di cui occuparsi. Ho conosciuto una ex dirigente di una banca – che ha rinunciato alla dirigenza proprio per avere il part time – che nel tempo libero si dedica al coaching e alle passeggiate in montagna. E’ serena, ma lei stessa racconta che ci ha messo anni – pur lavorando nella direzione del personale della banca – per fare “outing” sul fatto di essere part time e non sentirsi sminuita per questo. “Sono part time e sono ambiziosa”, dice adesso all’inizio di ogni workshop manageriale, dando l’esempio sul tema della “rottura degli stereotipi”.

D’altra parte, chi lavora in azienda conosce molto bene la figura del consulente strategico: persone la cui competenza si paga un tanto all’ora, e averle a disposizione anche solo un giorno a settimana può fare la differenza per un intero progetto. Di queste persone valorizziamo l’esperienza pregressa, ma anche quella che prosegue “al di fuori” dalle mura aziendali.

L’essere degli outsider li rende ancora più preziosi, tanto che negli Stati Uniti, invece di chiamarla “part time”, la loro viene definita una “portfolio career”.

mirror-reflection-black-and-white-2050590Lo diceva già la nota economista Lynda Gratton nel suo libro più famoso, “Il salto. Reinventarsi un lavoro al tempo della crisi”: presto dovremo concepirci tutti come liberi professionisti dallo spirito imprenditoriale, in grado di metter su una “portfolio career”. Mentre Tim Ferris, nel manuale “4 ore alla settimana. Ricchi e felici lavorando 10 volte meno” spiega come rendere sostenibile un part time estremo e liberarci al massimo per fare solo ciò che ci va.

Il collaboratore a cui vorrei proporre il part time, non l’ho detto subito per non attivare una serie di bias inconsci, è una donna. Che probabilmente si sente in colpa per essere una giocoliera, mentre presta mente e cuore a famiglia e lavoro. E che – invece di vederla come l’apertura verso una soluzione win-win che vada oltre la gabbia del “tutto o niente – potrebbe leggere la mia proposta come un rimprovero o un giudizio. Da dove cominciare per smontare questa sua – legittima, perché culturalmente fondata – preoccupazione?