Nessun bambino nasce razzista: le lezione di Skin

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Tutto ha inizio con un sorriso: siamo negli Stati Uniti, alla cassa di un supermercato, in una sera qualunque quando Troy, un bambino biondino e dalla corporatura sottile di circa dieci anni, sorride ad un uomo di colore che dalla cassa accanto gli mostra un pupazzetto. Il padre di Troy, che non fa mistero del suo razzismo, se ne accorge e interviene, in una escalation di tensione e violenza.

Più che un corto, Skin – che lo scorso febbraio ha vinto l’Oscar per il miglior cortometraggio e che dovrebbe uscire a breve nelle sale italiane – è un vero e proprio trattato. Tra i titoli d’inizio e quelli di coda, in tutto venti minuti, è racchiusa una sintesi di ciò che sappiamo del razzismo e di come pregiudizio e violenza si trasmettano da una generazione all’altra.

Traendo spunto da una storia vera, quella di Bryon Widner, un suprematista che ad un certo punto della vita rivede le sue posizioni, racconta di come l’incontro con la diversità possa diventare uno scontro.

Nelle scene iniziali il regista si sofferma sulla famiglia e sui processi educativi. Troy è plasmato dai discorsi e dall’esempio del padre, giocosamente allenato all’uso delle armi, nutrito di stereotipi e pregiudizi. Basti pensare al dialogo sull’innocua lezione di scienze, nel quale papà Jeffrey non perde occasione per spiegare al figlio “come capire se un serpente sia velenoso dal colore della pelle”. Quando un bambino viene istruito e modellato da messaggi d’odio nel contesto in cui vive, le conseguenze possono andare dal condividere stereotipi e pregiudizi (verso le persone di colore, le donne, gli arabi, etc.), all’odio, fino al ritenere accettabile la violenza e alla messa in atto di specifici comportamenti.  Tajifel e Turner per primi hanno studiato come il processo cognitivo noto come bias ingroup-outgroup sia automatico e immediato, dunque presente fin da bambini, poiché utile costruire una rappresentazione semplificata dell’ambiente sociale, con valutazioni stereotipiche in cui si tende a valorizzare il proprio gruppo di appartenenza (ingroup) rispetto gli altri (outgroup), amplificando le differenze e minimizzando le somiglianze. Sebbene questo processo emerga abbastanza precocemente, recenti ricerche hanno però contribuito a mostrare come i bambini non nascano razzisti  e come invece sia il contesto a rafforzare stereotipi e pregiudizi, trasformandoli in razzismo nel corso dello sviluppo, con differenze significative già rilevabili tra i 7 e i 9 anni di età.

Parallelamente al discorso sulla famiglia, nel corto si descrive il potere aggregante del razzismo che vede nell’altro solo una minaccia da eliminare. E si parla di violenza, subita e agita per vendetta, anche in questo caso in gruppo. Rispondere alla violenza con ulteriore violenza, in una sorta di legge del contrappasso, rappresenta una “strategia attiva” per affrontare il danno subito e sembra avere vantaggi sul piano del benessere psicologico. Ricerche condotte su campioni di bambini israeliani e palestinesi hanno mostrato come la “battaglia ideologica” – intesa come esaltazione del conflitto e provocazione del nemico – possa svolgere un ruolo protettivo rispetto alle conseguenze psicopatologiche dell’esposizione a una situazione sociale di violenza. Stereotipi, ideologie e comportamenti violenti si trasmettono così da una generazione all’altra, in un circolo vizioso difficile da spezzare.

Il corto è sconvolgente, anche perché il regista riesce ad affiancare al razzismo e alla violenza cieca aspetti di tenerezza. Geniale la scelta di rendere protagonisti della storia due bambini, uno bianco e uno di colore, nella locandina uniti a formarne uno solo: un invito a mettere per un momento sullo sfondo le differenze tra suprematisti e comunità di colore, tra razzismo e violenza, e a porre in primo piano le somiglianze tra i due bambini, stesso sguardo innocente, stessa predestinazione alla violenza.

Ma toniamo all’inizio del cortometraggio e a quella cassa, il bambino da una parte, l’uomo con il pupazzetto dall’altra. Uno scambio innocente, privo di pregiudizi, tra esseri umani che trovano un contatto, un avvicinamento, fidandosi. Quando ad un bambino è offerta l’occasione di dialogare con persone che appartengono al gruppo vittima di stereotipi e discriminazioni, ci dicono altri studi, il razzismo si placa.

Tornano in mente Goffredo Parise e il suo “Sillabari”, riferimento indispensabile e prezioso nella lettura dei cromatismi della vita. Nel racconto che corrisponde alla lettera A dei sentimenti, intitolato Altri(gli), un bambino in vacanza al Lido di Venezia incontra uno sconosciuto che, intrufolatosi nella zona dei ricchi, gli domanda di tenergli gli umili vestiti per andare a tuffarsi nel mare. Tremante il bambino accetta: “Chi era? Un ladro, un ex carcerato, un povero, un ricco diventato povero (avrebbe potuto accadere anche a lui, da grande, una cosa simile?), un ammalato, e com’era possibile che non avesse mai visto il mare? Aveva o non aveva famiglia? E lui perché aveva pianto? Tutte queste domande rimasero senza risposta nel bambino e più tardi anche nell’uomo adulto, ma fu da quel giorno che egli seppe, proprio perché nessuna risposta ebbero mai le sue domande, dell’esistenza degli «altri»”.

Per contrastare la deumanizzazione razzista bisognerebbe preservare (nei bambini e in noi stessi) queste domande e lo sguardo innocente del primo incontro con l’esistenza dell’altro.