Giornata Internazionale per i diritti dei migranti: e l’Italia che fa?

casual-diversity-female-1206059

Dal 18 dicembre del 2000 si celebra la Giornata Internazionale per i Diritti dei Migranti, proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Quest’anno, dunque, la ricorrenza diventa maggiorenne: la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie è stata siglata il 18 dicembre del 1990. Le Nazioni Unite decisero di affrontare la questione dopo il tragico episodio accaduto nel 1972, in cui un camion ebbe un incidente sotto il tunnel del Monte Bianco. Lì dentro non c’erano macchine da cucire, come avrebbe dovuto essere, ma 28 lavoratori del Mali che viaggiavano verso la Francia alla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro. Morirono tutti.

La Convenzione entrerà in vigore, in realtà, soltanto nel 2003: oggi conta appena 47 ratifiche, per la maggior parte compiute dalle nazioni di provenienza dei flussi migratori. All’appello manca l’Italia, così come molte altre nazioni europee. Nei 93 articoli del testo della Convenzione, viene riconosciuta la vulnerabilità dei lavoratori migranti e promossa una cultura dei diritti dei lavoratori migranti, contro abusi e sfruttamento.

Secondo una recente indagine della società di consulenza Eca Italia condotta su un campione di 51 aziende, i lavoratori stranieri in Italia sono un totale di 1.627. I dati sono stati presentati nel corso di un convegno che si è tenuto nei giorni scorsi a Milano dal titolo “Lavoratori stranieri in Italia: guida alla pianificazione”. Il 71% delle aziende esaminate ha ampliato il proprio organico italiano avvalendosi della collaborazione di tecnici e manager stranieri.

Le aree geografiche che hanno determinato maggior afflusso di risorse in Italia sono il vecchio continente per il 39%, l’America del Sud per il 16%, l’Estremo Oriente per il 13% e infine l’Asia, nel 9% dei casi.  Nell’area UE, il maggior numero di risorse straniere proviene da Francia e Spagna. Va ricordato che l’Unione Europea ha emanato una Direttiva (2014/67) con l’obiettivo di fornire agli Stati membri strumenti di controllo e obblighi amministrativi per verificare l’effettivo rispetto delle condizioni minime di tutela dei lavoratori distaccati e la genuinità dei distacchi.

«L’internazionalizzazione delle aziende oggi è una realtà consolidata  – commenta Andrea Benigni, Amministratore Delegato Eca Italia – e, data l’attrattività dell’Italia sotto numerosi aspetti, – non ultimo quello fiscale – è possibile prevedere un aumento di talenti stranieri nel nostro Paese. Il fenomeno dell’immigrazione va dunque considerato in modo più strategico, lì dove l’attrazione di figure professionali ad alto tasso di specializzazione costituisce un asset di sviluppo cruciale per le imprese italiane».

Nel corso del convegno, sono arrivati anche i dati relativi al personale extra UE in Italia, confermati da Donatella Cera, dirigente dello sportello unico per l’Immigrazione di Milano: i nullaosta (Blue Card UE, distacco ICT e distacchi ex art. 27a del TUI) rilasciati da gennaio a novembre 2018 in tutta Italia sono stati 1760. Le città con il maggior numero di richieste sono state Milano (933), Torino (139) e Bologna (108). L’importanza del lavoro in Italia di personale di alta qualifica è oggetto di una serie di disposizioni, oltre che in materia immigrazione, di profilo fiscale: il “regime impatriati”, introdotto dall’art. 16 del Dlgs. 147/2015 (e potenziato dalla Legge di Bilancio 2017), rende l’Italia il Paese più attrattivo d’Europa per talenti stranieri, grazie a una detassazione del 50% sui redditi di lavoro fino a 5 anni.

Abbiamo provato ad approfondire la questione e a comprendere meglio il momento attuale con Maurizio Ambrosini, docente di sociologia dei processi migratori e sociologia urbana all’Università degli Studi di Milano ed è responsabile scientifico del Centro Studi sulle migrazioni nel Mediterraneo di Genova.

A che punto siamo in Italia?

«Se ci soffermiamo a guardare il caso italiano, lo scenario è dominato dalla politica governativa che mi sembra, da vari indicatori, sta mantenendo le proprie promesse, ovvero linea di chiusura, penalizzazione per gli immigrati laddove il governo riesce ad indicare delle linee di attacco. Mi riferisco, in particolare, alla riforma della protezione umanitaria perché diminuisce la possibilità di accogliere persone in difficoltà e le butta per la strada, senza che peraltro siano stati migliorati i dispositivi di espulsione. L’esito sarà, perciò, un aumento delle persone allo sbando nelle nostre città, senza tetto, né legge. Il caso della famiglia in Calabria, con una bimba di pochi mesi, accolta da strutture di volontariato è emblematico in tal senso e probabilmente dovremo abituarci in tal senso».

Ci può tracciare un bilancio della situazione attuale?

«Bisogna intendersi perché ci sono vari tipi di migrazione. In Italia quando si parla di questo fenomeno si pensa agli sbarchi, ma bisogna operare dei distinguo.  Ci sono ventun tipi di permesso di soggiorno, tanto per cominciare. Il dato complessivo è quello di una situazione stazionaria da quattro anni a questa parte e le migrazioni, contrariamente a quello che tanti pensano, non sono aumentate. Il modesto aumento che c’è stato, compensato dalle uscite, è dato più dai ricongiungimenti familiari che dall’asilo: abbiamo più di un milione di minori per esempio, su una popolazione complessiva di 5milioni e passa di immigrati. Anche questo fenomeno della familiarizzazione dell’immigrazione è stato fiaccato dalla crisi economica e dunque è molto rallentato. Sul dato incide leggermente il numero delle naturalizzazioni, 200mila nel 2016, 150mila nel 2017. Globalmente, nel corso degli ultimi venti anni, sono circa un milione gli immigrati diventati italiani, ma è un fenomeno assolutamente fisiologico, che si verifica in tutti i Paesi, nel nostro più lentamente che in altri per via di una normativa sfavorevole. Ma anche in questo caso, il Governo ci ha messo una zeppa raddoppiando il tempo massimo di analisi che le autorità può impiegare per una richiesta di cittadinanza, da due a quattro anni. Un immigrato, dopo i dieci anni previsti di residenza, impiegherà altri quattro anni per avere una risposta, che non è detto sia positiva. Un altro elemento da valutare per studiare il fenomeno è la complessiva diminuzione delle nascite di minori da famiglie immigrate: aveva sfiorato gli 80mila nel 2012, attualmente siamo a 68mila circa. Anche in questo caso troviamo la componente della crisi economica, perché anche le coppie di stranieri faticano a portare avanti progetti di genitorialità».

Ma non ci sono solo loro…

«In effetti, ci sono altri pezzi del fenomeno migratorio perché ad esempio stiamo cercando di attrarre studenti dall’estero. Quando il fenomeno ci piace parliamo di mobilità, quando non ci piace parliamo di immigrazione, ma si tratta ugualmente di attraversamenti di frontiera di esseri umani. Non dobbiamo dimenticare la necessità di manodopera qualificata, come nel caso del personale infermieristico. Un terzo degli infermieri in Lombardia è straniero e adesso si comincia a parlare di attrarre medici: in generale l’Unione Europea ha una politica di attrazione di immigrazione qualificata, ma noi in Italia siamo indietro su questo versante. I richiedenti asilo e i rifugiati sono circa 350mila, cioè meno del 7% del totale degli immigrati, mentre noi li scambiamo per gli “immigrati”. Dovremmo iniziare a fare domande più precise: vogliamo studenti? Infermieri? Assistenti per gli anziani, note anche come badanti? Il fenomeno è sempre difficile da rilevare, ma si può dire che sta ripartendo il lavoro “nero” e il lavoro “grigio” in questo settore, grazie a testimonianze di operatori e a dati locali, specie dall’Est Europa. Il Governo Gentiloni, mentre chiudeva alla Libia, in ottemperanza ad un indirizzo europeo, ha tolto l’obbligo del visto a chi viene dall’Ucraina per soggiorni turistici. È facile immaginare che un certo numero si fermi, dopo il soggiorno. Un altro caso è quello del Salvador, anche lì non c’è l’obbligo del visto. E, ancora, gli investitori? Ci sono Paesi, come Malta e Cipro nell’UE, che concedono la cittadinanza agli investitori stranieri, in base allo ius pecuniae. Credo, dunque, che la gestione migliore del fenomeno non sia fare di tutt’un’erba un fascio, ma farsi delle domande più appropriate».

E la fuga dei cervelli italiani all’estero?

«Qui tocca un argomento per me importante, visto che ho due figli su tre all’estero. I giovani, molto più degli adulti, vedono un mercato del lavoro quanto meno europeo e quindi si stanno abituando a cercare oltralpe occasioni che non trovano qui. Il paradosso è che perdiamo personale anche in quei settori in cui avremmo bisogno, come quello medico di cui prima, perché sono molti i giovani medici che si trasferiscono all’estero. Ma ce ne sono tanti che partono per svolgere lavori meno qualificati, inserendosi in una dinamica che somiglia a quella del passato e a quella degli immigrati che vengono in Italia: fare il lavapiatti a Londra è considerata una discesa sociale provvisoria, in vista di una risalita, ricordiamo che l’immigrato è mosso sempre dalla speranza e non dalla disperazione. Spesso, però, succede che in molti scendono, senza più risalire. Ma se questo avviene lontano dagli occhi dei familiari, degli amici, dei compagni di scuola è meglio: è un meccanismo di identità dislocata, le persone tendono a distaccare il lavoro che svolgono dalla loro identità sociale ed è ciò che tiene in stabilità psichica tanti emigranti nel mondo».

Sul Global Compact che cosa possiamo dire?

«Il tema delle migrazioni è spesso prigioniero di ideologismi, stereotipi, pregiudizi. Non è mai tutto positivo, né tutto negativo. Abbiamo bisogno tutti di un bagno di realtà, di una conoscenza più precisa, come ribadito anche dal Global Compact. Malgrado non abbia numerosi risvolti pratici, è un errore tirarci fuori dalle discussioni, dai negoziati, dai possibili e auspicabili avanzamenti in una prospettiva di dialogo internazionale, intorno a questi temi. Nessun Paese può pensare di risolvere da solo il fenomeno dell’immigrazione, tanto meno l’Italia che non gli Stati Uniti, o l’Australia. Per molte ragioni avremmo fatto bene ad aderire e a discutere con gli altri, anche per ottenere maggiore solidarietà»