Il Parlamento italiano non ha un dress code (regole di abbigliamento) per le donne, perché non erano previste. Questo dà una “divisa” agli uomini (giacca alla Camera, giacca e cravatta al Senato) e lascia libere le donne di vestirsi come vogliono. E di non avere una divisa. Che effetto fa la divisa? Rende più facile il riconoscimento dei propri simili, rendendoli immediatamente visibili e creando un “effetto squadra”. Chi non la indossa ha più difficoltà a farsi riconoscere e di conseguenza a essere incluso. Come evitare questa forma di esclusione?
Tremo all’idea di un dress code per le donne nelle stanze di Montecitorio o palazzo Madama. Oggi come oggi rischiamo la gonna al ginocchio e il tacco di 3 centimetri.
Peggio ancora pensare di farci indossare giacca (e cravatta?), per scimmiottare anche nell’abbigliamento delle antiquate forme di identificazione maschile. Forse anche in politica come nel mondo del lavoro l’esigenza di aprire il campo da gioco a forze nuove e sostanzialmente difformi è l’opportunità per “scravattare” un po’ tutti, lasciando liberi anche gli uomini di vestirsi in modi diversi, pur nel rispetto delle istituzioni – sempre più populiste nella propaganda ma ancora decisamente nostalgiche nella forma.
Andiamo a vedere che cosa sta succedendo nelle aziende, dove anche gli uomini, approfittando di un generale movimento verso la diversità e l’innovazione, iniziano a spingere oltre il concetto di “casual friday”. Secondo un recente articolo dell’Harvard Business Review, ancora oggi gli uomini che provano a distinguersi da ciò che è tradizionalmente visto come mascolino vengono penalizzati sia in termini di carriera che di reddito. Vari ricercatori sono riusciti a mettere insieme un bel po’ di dati che in sostanza misurano una gabbia culturale ancora molto presente, anche se invisibile e spesso innominabile.
Per esempio:
1) gli uomini vengono penalizzati se sono gentili, arrivando a guadagnare anche il 18% in meno dei colleghi meno gradevoli e avendo meno chance di essere promossi;
2) nonostante tutta la pubblicità che si fa all’intelligenza emotiva come caratteristica chiave del buon leader, gli uomini empatici non vengono considerati più adatti a fare carriera, mentre le donne sì;
3) gli uomini che mostrano le proprie emozioni, in particolare la tristezza, ricevono valutazioni peggiori di quelli che le nascondono: le lacrime sono tollerate (e forse anche previste) nelle donne, ma negli uomini no;
4) la modestia non premia: uomini che non si vantano, ma anzi si dimostrano consci dei propri limiti ed errori, vengono assunti meno facilmente e valutati come meno competenti;
5) infine, anche il cosiddetto “femminismo” – che si esprime per esempio nel farsi promotori del congedo di paternità – stigmatizza gli uomini e li rende potenziali vittime di un “bullismo da scrivania” che si traduce in valutazioni peggiori e una carriera più lenta.
Tra le soluzioni proposte dalle ricerche c’è proprio una maggiore libertà di dress code: indice semplice e immediato di un atteggiamento aziendale che non enfatizza il genere attraverso la divisa. Qualcuno dirà che come ci vestiamo è un dettaglio, ma in realtà è un sintomo, un’espressione: più facile da modificare di altri processi discriminanti meglio mimetizzati, e capace di un impatto immediato su alcuni meccanismi di base che il nostro cervello usa per riconoscere chi ci è simile – e quindi alleato – da chi gioca in un’altra squadra.