La discriminazione porta inefficienza e non conviene a nessuno

equality-2110559_960_720

Nelle economie moderne, il problema delle discriminazione si pone quando “individui con le stesse caratteristiche economiche ricevono salari differenti, e le differenze sono sistematicamente correlate con talune caratteristiche non economiche dell’individuo come la razza e il sesso” (Stiglitz 1973). Dal punto di vista economico questo problema è rilevante perché produce inefficienza allocativa, e diventa particolarmente difficile da risolvere nel caso della discriminazione statistica, per la quale trattare diversamente due gruppi di individui ugualmente produttivi è il risultato di una scelta razionale dei datori di lavoro in presenza di incertezza sulla qualità degli agenti (Arrow 1986).

In tal caso, infatti, poiché non esiste alcuno strumento che sia perfettamente predittivo della produttività individuale, i datori di lavoro cercheranno di usare anche ogni altro indicatore che possa servire allo scopo; e se la razza o il sesso sono correlati con le caratteristiche produttive che interessano all’impresa, sarà razionale da parte del datore di lavoro usare anche questa informazione.

Questo comportamento è però ingiusto, perché una donna che ha la stessa produttività dell’uomo con cui compete per il posto di lavoro non sarà assunta solo per la sua appartenenza di genere, mentre ogni persona ha diritto di essere valutata esclusivamente sulla base del proprio merito individuale, senza riferimento a caratteristiche di gruppo quali la razza o il sesso. E quel che è peggio è che questa situazione tende a permanere invariata nel tempo, perché le conseguenze del comportamento discriminante sono tali da confermare automaticamente le convinzioni che lo hanno determinato.

Coate e Loury (1993) hanno proposto un modello che analizza gli effetti della discriminazione sulle decisioni delle imprese e dei dipendenti, e dimostrano che anche senza alcuna intenzione esplicitamente discriminatoria da parte dei datori di lavoro la discriminazione può emergere in una posizione di equilibrio del modello a causa degli effetti di retroazione (feedback).

In questo modello si assume che il datore di lavoro sia pessimista sulle donne ed ottimista sugli uomini. Comportandosi in questo modo, egli crea incentivi all’investimento in capitale umano che sono differenti per i due sessi, e questa differenza negli incentivi è esattamente ciò che induce gli uomini ad acquisire quelle maggiori competenze che sono alla base del comportamento ottimista del datore di lavoro nei loro confronti. L’esito è quello di portare il modello in una posizione di equilibrio con discriminazione, nella quale l’opinione che le donne siano in media meno produttive degli uomini è una «profezia autoconfermantesi».

Prof, un esempio?

Un esempio di questi effetti di retroazione emerge dall’analisi dei dati sull’occupazione dei neolaureati e delle neolaureate. Quando hanno la fortuna di essere assunte, le giovani donne si confrontano con una struttura degli incentivi che premia il tempo più che il talento, e che teme la maternità più della mediocrità. Se, a parità di conoscenze acquisite, le promozioni sono in funzione solo delle ore trascorse in azienda (usate come indicatore dell’impegno erogato nella prestazione), e non anche dell’abilità (evidenziata dal risultato della prestazione per unità di tempo), l’allocazione delle risorse umane risulterà meno che ottimale. Eppure, attualmente, nei mercati del lavoro interni, proprio il tempo sembra essere l’elemento essenziale del contratto implicito che governa i percorsi di carriera: la disponibilità di tempo è il segnale usato dai dipendenti per rendere visibile il proprio impegno e per dar prova del proprio talento, ed è offerto alle imprese in cambio di un compenso differito e aleatorio: la prospettiva di una promozione. Niente di male, in questo accordo implicito, se non fosse per il suo impatto non neutrale rispetto al genere.

L’ineguale divisione del lavoro domestico e di cura tra i sessi impone infatti alle donne un costo maggiore, per rendere visibile il proprio impegno e dar prova del proprio talento; il loro preziosissimo tempo, offerto in base ad un accordo implicito e in cambio di un compenso discrezionale, rischia infatti di essere del tutto sprecato, se alla fine non si traduce in una promozione, e, alla luce di questa prospettiva, il beneficio certo della conciliazione finisce per prevalere su quello incerto della carriera. Ciò che si osserva nei dati è il minor tempo dedicato dalle donne al lavoro professionale e il maggior uso del part-time e degli altri strumenti contrattuali che barattano conciliazione con carriera; ma questi comportamenti sono solo la risposta alla struttura degli incentivi con la quale le giovani donne si sono confrontate sul mercato del lavoro, che premia il tempo ma non riesce a rivelare il talento.

Prof, e se il datore di lavoro è invece ottimista?

Tutto viene rovesciato … Le opinioni del datore di lavoro sono autoconfermantisi anche nel caso in cui egli sia ottimista sulla produttività delle donne.

Ma allora dipende tutto dal caso, dalla fortuna?

No, dipende dall’efficacia delle politiche … poiché la posizione di equilibrio senza discriminazione è preferibile a quella con discriminazione, le politiche di pari opportunità e di lotta agli stereotipi sono necessarie per spostare l’equilibrio dalla prima alla seconda posizione.