Secondo i dati dello “Studio ergo lavoro”, di McKinsey, solo un ragazzo su tre sceglie il corso di laurea prendendo in considerazione le statistiche occupazionali. Se così non fosse, a quest’ora saremmo un popolo di ingegneri. Nella mia università, il Politecnico di Milano, il 97% dei giovani, maschi o femmine indistintamente, trova un’occupazione stabile a un anno dal titolo di laurea, il famoso e ambito posto a tempo indeterminato. Se ancora pochi “maturi” proseguono i propri studi all’università, ancor meno si orientano verso materie scientifiche, che meglio potrebbero assicurare un impiego fisso e redditizio. Lo sentiamo ripetere ovunque, eppure non riusciamo ad invertire la tendenza. Di quell’esiguo 18% che sceglie di investire ancora qualche anno sui banchi dell’università, solo il 25% si butta in un percorso STEM.
È indiscutibile che materie come l’ingegneria, la matematica o le biotecnologie siano difficili e forse poco attraenti. Ma spesso, anche là dove esiste del potenziale e dell’interesse, i pregiudizi impliciti la fanno da padrone. Sarò più esplicita: spesso le studentesse, anche le più brave e diligenti, si ritagliano un ruolo ancora molto scontato all’interno della società e nell’ambito professionale. Optano cioè per i più rassicuranti percorsi umanistici. Il mondo STEM, più di altri vittima di pregiudizi inconsci, fa sì che la scienza sia tutt’ora percepita come un territorio arido e, soprattutto, maschile.
Negli ultimi anni, diversi studi hanno affrontato la questione: dalla Casa Bianca alla Royal Society inglese, alla stessa Comunità Europea. Sono stati redatti documenti, organizzati dibattiti e momenti di confronto utili a far emergere questi comportamenti e ad evitarne gli impatti negativi, ma è difficile lottare contro secoli di storia. Più facile è raccontare di una nostra studentessa che ha aperto una startup di successo o di una nostra laureanda che in Norvegia è a capo di un team che progetta un tunnel sotto i fiordi. O farvi incontrare con una ricercatrice che studia robot di supporto ai bambini affetti da autismo o, perché no, con un’altra ricercatrice che a Human Technopole studia i dati per l’analisi del genoma. Le ragazze, tendenzialmente più brave a scuola rispetto ai colleghi, ancora non si riconoscono in questi modelli, ancora non osano. Un capitale che va tristemente sprecato. Tant’è che, nel corso dell’ultimo triennio, la presenza femminile al Politecnico di Milano è rimasta invariata.
Esistono quindi due ordini di problema: aumentare gli iscritti a facoltà scientifiche, tout court; agire su un potenziale latente, truccato di rosa. Se il primo è un male che affligge il nostro Paese più di altri, la scarsa rappresentanza femminile negli ambiti di studio scientifici prima, e in quelli lavorativi poi, è un problema ampiamente diffuso. La Commissione Europea ha più volte ribadito che un incremento del numero di donne in contesti tecnico-scientifici produrrebbe un effetto positivo sul PIL europeo. Ricordiamo che in Italia una donna su due non lavora; che siamo lontani dalla media europea che supera, anche se di poco, il 60%. Se poi puntiamo la lente sulle STEM, l’immagine è impietosa. A pesare sul dato occupazionale vi è indubbiamente la difficoltà nel rintracciare modelli positivi, prima nella scelta carriera scolastica, spesso condizionata sin dall’infanzia, e poi, di riflesso, in quella professionale.
Per aumentare il numero di laureati STEM il Politecnico organizza incontri nelle scuole e open day, visite nei laboratori e percorsi formativi nelle aziende. Apre le porte agli studenti stranieri e aumenta le borse di studio. Ma non ci sono soluzioni facili e a portata di mano. Ancor meno, esistono ricette veloci per convincere le donne a credere in sé stesse. Ci proviamo con incontri motivazionali e summer school, con progetti che coinvolgono le aziende, la comunità dei laureati, le istituzioni. Il nostro è un contributo significativo, ma non sufficiente, fatto da piccole battaglie per sconfiggere un grande nemico. “È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”, ha detto Albert Einstein. Da buoni uomini e donne di scienza, per tentativi ed errori, proviamo ogni giorno a dimostrare il contrario.