Ma se sono io a mettermi all’angolo?

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“Nessuno può mettere Baby in un angolo”. Sono giorni che mi risuona questa storica frase di Dirty Dancing, l’inizio dell’indimenticabile scena finale che ha accompagnato decine di pomeriggi della mia preadolescenza, sognando un Patrick Swayze qualsiasi che togliesse anche me dall’angolo. Negli anni ho capito che Patrick, bontà sua, non sarebbe arrivato, per lo meno non nelle sembianze del ballerino burbero e muscoloso ma dal cuore d’oro della mia infanzia. E che, soprattutto, non ci sarebbe stato proprio nessuno a tirarmi via dall’angolo, soprattutto quando all’angolo mi ci metto io.

Un altro pensiero che mi frulla per la testa in questi giorni riguarda una bellissima lettera, scritta da Letizia ad Alley Oop e che potete rileggere qui, se l’avete persa. Ne vale la pena. Una lettera che mi ha colpito perché avrei potuto scriverla io in molte parti, avrebbero potuto scriverla credo la maggior parte delle mamme. E che mi ha fatto riflettere su quanto profondamente complesso sia il riposizionamento di se stesse dopo la maternità, in una società come la nostra che da un lato celebra l’essere madre esaltandone le caratteristiche di “naturalità” e di centralità (senza che a questo corrisponda però altro che una serie di modelli a cui pare necessario corrispondere e standard a cui ci si deve adattare) e dall’altro, più in concreto e nella quotidianità, relega lo stesso ruolo ai margini del mondo lavorativo, per mancanza di strutture, mentalità, organizzazione, volontà e cultura. Letizia descrive molto bene come ci si sente di fronte a un mondo che dal punto di vista lavorativo, culturale e sociale si riempie la bocca di parole come uguaglianza e pari diritti, mentre ti relega “in una specie di setta i cui membri sono protetti, ma non contano nulla: non prendono decisioni, non possono avere opinioni. Stanno dentro a una bolla di sapone, da cui vedono tutto ma non partecipano a niente”, come dice Letizia.

Senza entrare nel dibattito, importante e complesso, del cambiamento necessario alla nostra società, mi viene da riflettere sul cambiamento che molte donne devono ancora fare dentro se stesse, in maniera profonda, per contribuire a questa svolta culturale sempre più imprescindibile. Perché mi sono resa conto come io stessa, a volte, mi metta all’angolo (e niente, il ballerino salvatore non arriva) e consideri il mio ruolo di madre sempre e comunque come prioritario e non conciliabile con quello professionale, senza che questo sia così necessario. A volte sono proprio io, che ho la fortuna di aver potuto mantenere la mia professione anche dopo essere diventata madre, a fare quel passo indietro che poi mi fa arrabbiare, perché mi fa perdere occasioni, perché non rende merito al mio ruolo professionale, perché non valorizza il mio lavoro.

Un atteggiamento tipico di molte donne (per fortuna non tutte!), che va di pari passo con l’atavica mancanza di autostima che porta le donne che lavorano a un eccesso di perfezionismo (e di competizione) e a richieste di performance sempre più elevate, nella convinzione di dover sempre e continuamente dimostrare il proprio valore. Tanto che, anche in caso di successo, la sindrome dell’impostore (e se ne parla dal 1978, non da ieri) è sempre in agguato e riguarda le donne in misura maggiore rispetto agli uomini. Il tutto, con la maternità, è aggravato dall’eccesso di carico di lavoro familiare che ricade per la maggior parte sulle spalle delle donne.

Certo, mi dico, il primo passo per il cambiamento deve partire da me, rendendomi conto e valorizzando adeguatamente i miei talenti e le mie capacità. Ma certo, la capacità di esprimerli dipende anche dal carico di lavoro e dalle responsabilità che, fuori dal lavoro, una donna si trova spesso a gestire da sola. Come risulta da una recente indagine della Nielsen (di cui abbiamo parlato qui), nel 44% delle case italiane sono esclusivamente le donne ad occuparsi della gestione domestica, dai pasti al bucato, contro un 8% di famiglie dove al contrario questi lavori sono appannaggio dei soli uomini. Sul fronte dei figli, una coppia italiana su due dichiara di prendersene cura insieme. L’altra metà no. Ecco perché il 76% delle donne intervistate dalla Nielsen ritiene l’essere madre un ostacolo alla propria carriera lavorativa. Insomma, le donne lavorano molto di più degli uomini, tra casa, figli e professione. Ma questo lavoro non viene riconosciuto (qui un’altra fonte e dati da tenere presenti).

Tutti questi pensieri mi riportano al punto di partenza: “Nessuno può mettere Baby in un angolo”. Ma se all’angolo, volenti o nolenti, ci ritroviamo allora la prima domanda da farci è cosa possiamo fare per uscirne, cosa possiamo cambiare dentro di noi e nelle nostre quattro mura domestiche perché quell’angolo non diventi una condanna da subire. E così, con queste consapevolezze possiamo fare il primo passo. Poi, però, Baby non balla da sola. La danza funziona se qualcuno la accompagna. E non basta un Patrick Swayze, in questo caso. Serve davvero che ognuno faccia la sua parte.

  • Chiara Di Cristofaro |

    Buongiorno Laura T. e grazie per la sua segnalazione! In effetti nel film la protagonista è Baby, proprio perché considerata la piccola della famiglia, quindi correggo la citazione! Babe è usato in inglese e americano in maniera colloquiale per definire una bella ragazza, forse traducibile con “pupa”, oppure in una coppia come una sorta di nomignolo, (“piccolo” o “piccola”), da qui la mia svista.
    Nulla sapevo del maialino coraggioso del film di cui mi racconta, che però andrò a cercare!
    Un cordiale saluto, Chiara

  • laura t |

    Il vostro articolo inizia con “’Nessuno può mettere Babe in un angolo’ Sono giorni che mi risuona questa storica frase di Dirty Dancing”. E per fortuna che sono giorni che le risuona, gentile giornalista. Perché casomai si tratta di “Baby”, che non deve stare in quell’angolo. “BABE” è il “maialino coraggioso” dell’omonimo film. Come distruggere un articolo citando male e finendo per nominare un maiale invece di una icona degli anni Ottanta. Fortuna che è Il Sole 24 Ore.

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