Non fa in tempo a circolare la notizia della nomina di Valeria Fedeli al ministero dell’istruzione del neonato governo Gentiloni che parte il linciaggio mediatico. L’accusa è chiara: la neo-ministra è rea di aver firmato (nel 2014) un disegno di legge sull’educazione di genere nelle scuole. Per fortuna a poche ore dalla nomina arriva la, ben più succulenta, notizia della “falsa” laurea e la polemica sul “gender” si sgonfia come un sufflè mal riuscito. Una polemica lampo quindi, ma sufficiente per innescare un parapiglia mediatico alimentato dai sostenitori del family day. Tuttavia, di fronte a un coacervo di opinioni circa l’importanza o la demonizzazione di un programma scolastico che tratti di identità di genere, mi sono reso conto che, io stesso non ne so un granché. Quali sono gli argomenti trattati? Qual è l’approccio scelto da chi si deve parlare di fronte una classe o, addirittura, un’intera scuola? Cosa chiedono gli studenti? E come reagiscono professori e genitori?
Deciso a colmare questo vuoto mi sono rivolto a chi questo “mestiere” lo fa da un po’ e ho incontrato Luigi Colombo Coordinatore del Gruppo Scuola del CIG (Centro di Iniziativa Gay) di Milano.
Non accenna a diminuire la polemica sulla presenza nei programmi scolastici di argomenti legati al mondo LGBT* e all’identità di genere. Eppure l’approfondimento di queste tematiche è un fenomeno che ha radici ben più profonde nel tempo o sbaglio?
In realtà, sebbene siano temi di attualità, il Gruppo Scuola del CIG lavora nelle scuole da più di 18 anni. Certo, negli ultimi anni, anche grazie ai temi dell’omofobia e del bullismo ma anche al percorso della legge Cirinnà, le cose sono molto cambiate. Prima capitava raramente di entrare in una classe in cui ci fossero ragazzi gay o lesbiche dichiarati, ora non è più così infrequente. Anche il clima è decisamente mutato, più disteso e le domande dimostrano che non solo i ragazzi, ma anche insegnati e istituzioni sono più coscienti e attenti. Per farti un esempio negli ultimi anni accade sempre più spesso di avere ragazzi e ragazze che, a fine incontro, si avvicinano per chiedere maggiori informazioni, per approfondire o anche per avere i contatti delle associazioni.
Pochi sanno cosa accade veramente durante queste ore di approfondimento. Aiutaci a capire: in cosa consistono gli incontri e quali sono i temi maggiormente trattati?
Gli incontri hanno un carattere essenzialmente esperienziale, ossia cercano di portare nelle scuole la testimonianza di volontari che si mettono a disposizione della classe per parlare del loro vissuto, pronti a rispondere alle domande dei ragazzi, e ce ne sono parecchie, ovviamente. Sicuramente i temi di punta sono un confronto generale su omosessualità e transessualità, ma anche bullismo e omofobia. Non è un segreto che studenti gay, lesbiche, bisessuali e transgender (LGBT* appunto) siano ancora vittime di abusi verbali e fisici a scuola. Crescere imparando a celare il proprio orientamento sessuale tra i pari e con gli adulti può determinare casi di abbandono degli studi o di assenteismo tra gli studenti LGBT*, con la conseguente riduzione della possibilità di proseguire ai livelli di istruzione superiore; non rari sono i casi di isolamento sociale e sofferenza psicologica. Parlarne in classe permette di affrontare questi argomenti in termini non discriminatori e a creare le basi per una vera integrazione. Si parla molto anche di coming-out e di vita quotidiana, sempre in terza persona ovviamente, focalizzando l’attenzione sull’esperienza degli oratori e mai sui ragazzi, a meno che non vi sia una richiesta specifica.
Non si tratta il sesso quindi?
L’educazione sessuale non è lo scopo principale di questi incontri. Certo, ne parliamo, anche perché è evidente che ci sia una curiosità in tal senso da parte degli studenti. Ma i nostri interventi sono tesi essenzialmente alla non demonizzazione del proprio corpo e dei rapporti. Ci capita spesso, per rompere il ghiaccio e superare un primo imbarazzo, di proporre alla classe di scrivere domande specifiche attraverso foglietti anonimi, così da permettere loro di esprimersi liberamente. Soprattutto da queste domande comprendiamo quanto anche l’aspetto sessuale interessi e incuriosisca molti di loro. Cerchiamo di non lasciare inevase queste risposte, tuttavia demandiamo l’approfondimento del tema ai professionisti che intervengono nell’ambito di lezioni di educazione sessuale (anche se non sempre la scuola ne offre). In ogni caso, devo dire che, a parte qualche caso specifico o provocatorio, ai ragazzi interessa di più parlare di esperienze di vita, capire cosa si aspetta il mondo da loro e come altre persone hanno affrontato, ad esempio, il tema del coming-out.
In quali scuole e con che modalità intervenite e quali sono le reazioni degli studenti?
Sono le scuole o, meglio, i professori a proporre questi interventi e gli istituti in cui veniamo chiamati sono principalmente scuole medie inferiori e superiori. Nelle medie inferiori proponiamo un laboratorio con attività di educazione non formale attraverso proiezioni video e giochi tesi a coinvolgere e migliorare dialogo e relazioni fra studenti. Nelle superiori, oltre ai laboratori proponiamo un lezione di sensibilizzazione basata su racconti esperienziali e su curiosità, in un clima informale e paritario. I ragazzi reagiscono molto bene a questi stimoli, fanno domande, esprimono curiosità capita anche che cerchino di mettere in difficoltà l’oratore. Tutto sempre in un atmosfera distesa anche perché cerchiamo di far sì che dialogo avvenga a livello paritario e estremamente informale. Non siamo insegnante e alunno ma persone che si confrontano.
E i professori e gli istituti come reagiscono? Ci sono stati fenomeni di antagonismo o critica?
In realtà i professori sono la chiave di questo progetto. Sono loro che ci vengono a trovare e propongono agli altri docenti e alla scuola di parlare di questi temi in classe, o perché lo ritengono opportuno o, spesso, perché ne avvertono il bisogno tra gli studenti. A quel punto l’istituto ne discute e decide se chiamarci inserendoci nel programma didattico oppure no. Una volta svolta la lezione di fronte alla classe e ai professori, non ho mai assistito a episodi specifici di antagonismo, semmai di diffidenza che, di solito, viene comunque superata dopo il primo incontro. Accade invece più spesso che la proposta del professore non venga accolta e, ancor prima di iniziare, la serie di incontri venga cancellata.
Quindi il problema sta a monte, nell’istituto o, forse, altrove…
I professori che propongono questi incontri si trovano in una situazione particolarmente delicata. Capiscono l’esigenza dei ragazzi di approfondire questi argomenti ma, al tempo stesso, si sentono anche molto isolati. Temono la reazione dei genitori che, per ragioni ideologiche, politiche, religiose o anche personali, potrebbero sollevare il caso ancor prima di conoscere il contenuto di questi incontri. L’approccio e il sostegno del genitore quindi può fare moltissimo in questi casi. E non sai quanto sia importante. Ti faccio un esempio. Se un ragazzo viene discriminato a scuola perché appartiene a un’etnia diversa oppure per la sua religione, può tornare a casa e parlarne ai genitori che prenderanno i provvedimenti del caso, affrontando il problema. Se un ragazzo o una ragazza, che non hanno fatto ancora coming-out, vengono discriminati a scuola per una questione di orientamento sessuale o di identità di genere, con tutta probabilità non ne parleranno a casa. Se nemmeno la scuola riesce a dare un sostegno, se non può essere un luogo sicuro e di confronto per loro, cosa faranno? Se, al contrario, accoglie anziché rifiutare la discussione gli stessi ragazzi potrebbero poi affrontare il tema anche in famiglia con più serenità. E’ un percorso in cui il corpo docenti con il sostegno dei genitori può fare la differenza.
E poi, parliamoci chiaro, combattere omofobia e bullismo in ambito LGBT* contribuisce più in generale a un clima meno discriminatorio che giova in tutti sensi.
Esatto, parlare di omofobia e di bullismo omofobico nelle scuole aiuta ad affrontare il problema del bullismo e della discriminazione che colpisce qualsiasi altra diversità. Al giorno d’oggi le classi, soprattutto in città come Milano, sono formate per metà da studenti stranieri o di origine straniera. Quella che trattiamo è soltanto una delle possibili discriminazioni che un ragazzo può subire quotidianamente tra i banchi. Sarebbe impensabile parlare soltanto di temi specifici senza trattare il problema nel suo complesso. Ed è ciò che facciamo.
Ma chi sono questi volontari che partecipano agli incontri? Chiunque può fare l’oratore?
Assolutamente no. Il percorso che è necessario seguire per far parte del Gruppo Scuola è molto lungo e impegnativo. La preparazione dura un anno e viene svolta con professionisti, psicologi e affiancamento. A fine anno è previsto un severo esame senza il quale non si può accedere alle classi. Il Gruppo Scuola attualmente ha ben 30 volontari tra cui anche qualche genitore e anche un paio di maestre che hanno sentito l’esigenza di approfondire queste tematiche. Può anche essere un percorso personale che non sfocia nelle lezioni frontali. L’anno scorso abbiamo coinvolto più di 1.500 studenti e i feed-back sono stati molto positivi. Quest’anno ce ne aspettiamo decisamente di più.
Un’ultima domanda. Oggi il web e, soprattutto i social, hanno un ruolo non marginale nella vita degli studenti e, soprattutto i più giovani sono particolarmente esposti a questo mondo. Affrontate anche questi aspetti?
Il cyber-bullismo è uno dei fenomeni più problematici degli ultimi anni. Gli attacchi che subiscono i ragazzi sui loro profili social personali posso essere di una violenza tale da distruggere psicologicamente una persona adulta, figuriamoci un adolescente. Ci sono studenti che hanno dovuto chiudere i loro profili e aprirne di nuovi sotto pseudonimi per poter dialogare con amici e parenti. Per questo è così importante parlare di queste tematiche, a prescindere dalle ideologie, dalla politica, dalla religione. Questi attacchi, questi insulti, possono colpire chiunque, a prescindere dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere. Negare il confronto significa alimentare questi fenomeni. Le polemiche che infiammano i media forse dovrebbero tenere conto anche di questo.
Quindi sarebbe proprio il caso di dire: “Ma qualcuno pensa ai bambini?”.