Lavorando a tempo pieno sui temi del lavoro femminile da quasi 5 anni, posso azzardarmi a ipotizzare una mia personale tassonomia per quanto riguarda l’atteggiamento di donne e uomini quando si parla di parità di genere. La premessa dovuta è che le categorie, per definizione, semplificano e banalizzano, e sono utili solo se viste come macro confini entro cui immaginare ogni grado di sfumatura.
Le donne che ho incontrato in questi anni appartengono a tre tipologie:
1) il 70% sono “rassegnate”: vedono le discriminazioni e le considerano inevitabili, un dazio da pagare alla possibilitá di entrare in partita, con qualche remota speranza, nei giorni di ottimismo, che il tempo faccia giustizia.
2) il 20% sono “assimilate”: sono spesso proprio le donne di potere, che tali sono diventate perchè questo sistema lo hanno “sposato”: per loro le discriminazioni non esistono ed è solo una questione di meritocrazia; sono contro qualsiasi evoluzione che possa rendere più facile il cammino di quelle che verranno dopo di loro.
3) il 10% sono “rivoluzionarie”: sono pochissime, perchè i ritmi di vita delle donne raramente lasciano il tempo per fare progetti di cambiamento del sistema: sono le nuove femministe, spesso infiltrate in posizioni preziose dentro il sistema stesso, pensano seriamente di volere e poter ridurre il numero di anni che ci allontana dalla piena paritá di genere – che sono ancora quasi 100, secondo il World Economic Forum.
Ma passiamo agli uomini: un recente articolo dell’Harvard Business Review racconta le caratteristiche degli “uomini che fanno da mentore alle donne”, ma mentori è una definizione riduttiva per questo segmento di coraggiosi, soprattutto se paragonati alle altre due categorie che definiscono questa metá del cielo.
Gli uomini infatti, si dividono principalmente in due gruppi di maggioranza:
1) quelli che discriminano attivamente, più o meno consapevolmente, e sono tra le cause della persistenza di tante disparità;
2) e quelli che ritengono che il problema non esista, che sia solo uno dei tanti temi di moda oggi, ma che nei fatti la paritá c’è giá, e se le donne “non ce la fanno” (ma a me non sembra… io ho tante colleghe donne e fanno una normalissima carriera) è solo un tema di merito o di diverse priorità.
Quindi, dal lato maschile delle alleanze, ci resta solo una piccolissima quota di “attivisti”, quelli che l’Harvard Business Review definisce appunto mentori e che noi potremmo chiamare “femministi disperati”. È facile riconoscerli – se si ha la fortuna di incontrarne uno – sono quelli che fanno domande scomode come “perchè per questa posizione non abbiamo neanche un candidato di sesso femminile?”, quelli che a un collega che critica l’aggressività di una donna chiedono se ad un uomo farebbero le stesse osservazioni.
Ma sono anche uomini destinati a soffrire, come quel top manager che a un incontro mi ha confessato sotto voce che il sessismo nelle riunioni della sua azienda spesso è così pervasivo e scontato che, pur essendone lui l’amministratore delegato, non sa proprio da che parte cominciare per cambiare le cose. Ecco, questi uomini vanno aiutati, protetti e festeggiati, perchè è ancora più difficile essere per il cambiamento quando sei seduto dalla parte dei più forti.