Conversare con Luisa Pogliana, autrice di tre libri “irriverenti” sul management, è un toccasana, una ventata di freschezza che farebbe bene a tutti i manager. Il suo ultimo lavoro, dal titolo Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende (in uscita il prossimo 20 settembre per Guerini Next), è un libro potente. E non è un libro femminista: è un lavoro che spiega in maniera molto chiara il valore innovativo per le aziende del pensiero differente delle donne in ruoli decisionali, che nasce dal loro rapporto con il potere. Differente, appunto, da quello maschile. E lo fa senza appellarsi a teorie o modelli manageriali, ma tratteggiando una nuova visione del management, strutturando un nuovo pensiero che dà forma e sostanza alle nuove prassi già messe in campo, con tanto di risultati misurabili, da numerose manager che hanno agito secondo “ciò che riteneva giusto”, ovvero la loro etica personale.
Qual è lo scarto tra la visione maschile del potere e quella femminile?
Potere è una parola ambivalente, che oscilla tra il significato di dominio e di possibilità. Storicamente è stato interpretato dagli uomini come uno strumento di affermazione di sé, a discapito degli altri, quindi di comando e di controllo, creando una cultura manageriale dominata dalle gerarchie e dall’accentramento delle informazioni. Le donne ne colgono, invece, l’aspetto di potenzialità. Per loro, stare nei luoghi dove si prendono le decisioni significa poter esercitare una discrezionalità positiva, non adeguarsi alla cultura dominate, ma portare avanti la propria visione dell’azienda, spesso legata a un senso di responsabilità sociale del business. Facendo, così, vera innovazione.
Eppure spesso non vengono riconosciute come innovatrici…
Il problema è che faticano a vedere il valore e la portata innovativa di ciò che fanno, perché appare loro ovvio, semplice, di buon senso. Di conseguenza, non colgono la necessità di raccontare, di cercare di dare visibilità al loro operato. Eppure, già solo questa libertà di pensiero e di azione sono indice di un nuovo modo di essere manager. Tale atteggiamento remissivo presta il fianco a chi in azienda vuole mantenere il controllo, chi si sente minacciato invece che stimolato ad ampliare il proprio sguardo verso l’organizzazione. Ecco perché, di norma, le innovazioni apportate dalle donne manager vengono classificate come “best practices”, ma non integrate nel pensiero manageriale.
Come superare questi ostacoli e cambiare la cultura aziendale?
C’è senz’altro un tema di linguaggio, anche se non è il principale. Le donne prediligono termini legati alla realtà rispetto ai tecnicismi anglosassoni abusati dalla business community, ma il punto non è adeguarsi, piuttosto trovare nuove parole, ampliare il vocabolario manageriale. La vera sfida per le donne manager, tuttavia, è trasformare le loro innovazioni in pratiche aziendali, in cambiamenti stabili fino a farle diventare nuovi modelli organizzativi e, così facendo, riuscire a incidere sulla cultura aziendale. Il punto da cui partono per cambiare le regole può essere – e lo è nella maggior parte dei casi – contingente e anche personale, ma le soluzioni che trovano devono diventare prassi per l’azienda. Quindi, devono essere adeguatamente comunicate e riconosciute per il valore che possono portare a tutta l’organizzazione.
Quali sono gli elementi comuni delle nuove prassi di management messe in atto dalle donne?
Tutti i casi che racconto nel libro e molti altri che ho avuto modo di esaminare sono accomunati da due fattori di discontinuità rispetto alla cultura dominante. Innanzitutto, la convinzione che la crescita delle aziende avvenga attraverso la crescita delle persone. Da qui, la necessità di portare a galla le potenzialità latenti di ciascuno e accrescerne le competenze attraverso un’adeguata formazione, coinvolgere e condividere le decisioni. In secondo luogo, l’introduzione di un concetto di tempo che è diversa da quella di orario di lavoro, è la dimensione umana del tempo, scandita da alcuni momenti critici a partire da quello della maternità, che impone soluzioni più intelligenti rispetto al passato, basate su più responsabilizzazione e autonomia dei team e su un’organizzazione per obiettivi del lavoro.
Quindi quale tipo di leadership esercitano?
Le donne non sono ingenue. Scelgono perlopiù uno stile di leadership diffusa, perché hanno ben chiaro in testa che il massimo del potere è distribuire potere agli altri per avere più tempo da dedicare alla strategia. Vedono l’azienda come un luogo dove convergono persone con interessi diversi, in cui il ruolo di manager consiste nel fare una mediazione equa tra tutti, così da creare valore per l’azienda stessa. Una leadership del genere trova la sua forza nella gestione delle relazioni e in un approccio collaborativo, invece che competitivo, semplicemente perché conviene più del conflitto. Non è una visione romantica, dunque, piuttosto una visione realistica ma per questo non meno ambiziosa. Donne al margine, potremmo dire, consapevoli dei limiti e dei vincoli entro i quali si devono muovere, disponibili a compromessi accettabili pur di poter esprimere la loro visione di azienda. Perché il margine segna il limite e allo stesso tempo la possibilità.