Esiste un filo sempre più stretto che lega la condizione lavorativa delle nuove generazioni ai disturbi mentali. Quasi la metà della Gen Z e 4 Millennial su 10 affermano di aver provato ansia e stress e, in alcuni casi, di essere arrivati finanche al burnout. E il lavoro ne è stata la causa principale, specie per le donne.
Dall’ultimo report di Deloitte dedicato a Gen Z e Millennials al lavoro, emerge che la salute mentale è in cima alle preoccupazioni delle nuove generazioni, subito dopo le questioni economico-finanziarie. Carichi di lavoro pesanti, scarso equilibrio con la vita privata, culture aziendali malsane e l’incapacità di trovare un’autenticità nel proprio posto di lavoro, sono le motivazioni che più mettono in crisi la stabilità mentale dei giovani.
Le ragioni del malessere
Millennial, e in misura leggermente inferiore Gen Z, sono persone che hanno raggiunto l’età delle responsabilità, a cavallo dei 30 anni, con conseguenti nuove esigenze: una casa, una famiglia, le necessità di cura per i figli o per i genitori anziani. Le responsabilità genitoriali toccano, in particolare, più di un terzo della Gen Z e circa quattro millennial su 10. E conciliare tutto questo con il lavoro impatta molto sulla salute mentale, come denuncia il 40% degli intervistati e delle intervistate.
Ma il parenting viene solo dopo la questione economica che – come abbiamo avuto modo di sottolineare in precedenza – è in cima alle preoccupazioni delle nuove generazioni, costrette a procedere di stipendio in stipendio, senza prospettive solide per il futuro. Non solo, a tutto ciò si aggiungono i social media: il 46% dei Gen Z sostiene che i social media aumentano la solitudine e la sensazione di inadeguatezza.
Anche se resta l’ambiente di lavoro il vero drenante di energie positive: il 36% della Gen Z afferma di sentirsi esausto per la maggior parte del tempo trascorso al lavoro, il 35% è distaccato mentalmente dalla propria occupazione e il 42% fatica a dare il meglio di sé al lavoro. I numeri tra i millennial sono rispettivamente del 30%, 28% e 40%.
La responsabilità delle aziende
Sono cifre che suonano un campanello d’allarme importante per le aziende a cui va la delicata responsabilità di intervenire per ridurre le cause principali di burnout. I giovani chiedono inversioni di rotta urgenti e ritengono che le organizzazioni non stiano facendo abbastanza. Infatti, per più di 8 persone su 10 le azioni per la salute mentale sono tra i fattori più importanti nella valutazione di potenziali nuovi lavori.
Ma non bastano iniziative isolate, perché il disagio mentale è ancora accompagnato da un forte stigma. Molti intervistati e intervistate non si sentirebbero a loro agio a parlare sul lavoro di stress e di ansia e tra coloro che si sono assentati per affrontare problemi di salute mentale, oltre la metà l’ha fatto senza rivelare al management il vero motivo dell’assenza. La generazione Z è solo in parte più a suo agio a parlarne e a utilizzare gli strumenti messi a disposizione dalle imprese, come consulenze e terapie. La strada verso una normalizzazione della cura della salute mentale è ancora lunga.
Cosa fare, quindi? Senza dubbio, suggerisce l’indagine, è fondamentale agire in maniera trasversale e costruire una cultura del lavoro in cui il benessere mentale possa essere oggetto di discussione aperta e in cui le persone siano incoraggiate a cercare un sostegno adeguato. Ciò significa, ovviamente, anche offrire strumenti e politiche di sostegno, spingendo le persone a farsi avanti senza paura del giudizio altrui.
La flessibilità è la misura più richiesta
Quanto alle misure da mettere in campo, le nuove generazioni sembrano non avere dubbi. Il punto numero uno riguarda il raggiungimento di un buon equilibrio tra lavoro e vita privata. Richiedono: modalità di lavoro più flessibili, smart working o lavoro ibrido (più della metà della Gen Z e dei millennial ritiene infatti che l’hybrid work sia positivo per la salute mentale), settimane lavorative di quattro giorni e maggiori opportunità e avanzamenti di carriera anche per chi sceglie il part-time.
I manager, sostengono, dovrebbero dare il buon esempio, introducendo delle linee guida per contrastare le abitudini “always on”, ovvero l’essere sempre connessi, e incoraggiando le persone a staccare veramente la spina al di fuori dell’orario di lavoro.
Il nodo dell’inclusione
Infine, un piano altrettanto importante su cui agire riguarda l’inclusività. Ancora oggi, i comportamenti non inclusivi sul lavoro rimangono diffusi. 6 Gen Z su 10 e quasi la metà dei millennial affermano di aver subito molestie o microaggressioni sul lavoro come comunicazioni inappropriate, approcci indesiderati, esclusione, battute sul genere e molto altro. Per questo, sono necessarie leadership inclusive che promuovano a tutti i livelli la fiducia e l’empatia tra le persone, eliminando giudizi e discriminazioni.
Favorire conversazioni aperte, individuare segnali di malessere, offrire sostegno in modo proattivo ma non giudicante, sono i pilastri su cui dovranno essere costruiti i nuovi ambienti di lavoro. Ambienti in cui ogni persona possa sentirsi bene.
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