Revenge porn suona di vendetta, e di porno. Ma la sua traduzione più efficace è condivisione non consensuale di materiale intimo (Non-Consensual Initimate Images). Ci piacerebbe poter dire che si tratta solo di questo, ma significherebbe non tenere conto dei gruppi Telegram dove avvengono veri e propri stupri di gruppo virtuali o sharing di materiale pedopornografico. Il fenomeno, che è legalmente un reato, non ha necessariamente a che fare con la vendetta. Il revenge porn avviene quando un soggetto condivide online del materiale sessualmente esplicito di una persona a sua insaputa, violandone la privacy e distruggendo la sua immagine pubblica. Il contenuto viene condiviso, più e più volte, innescando un processo meschino e virale. I messaggi sui gruppi Telegram, spesso sotto forma di “Ho materiale della mia ex, giro”, oppure “Chi ha dodicenni”, sono stati resi noti da giornalisti, attivisti o professionisti in incognito per testimoniare una realtà al limiti dell’assurdo.
Consenso e violenza
Nel 2022 è ormai difficile pensare di associare il revenge porn solo ed esclusivamente a un ricatto perpetrato da un ex partner deluso o geloso; le categorie a rischio viralità comprendono principalmente donne e minori, toccando trasversalmente altri fenomeni come il sexting e il deep porn. C’è una cosa che è fondamentale capire: può succedere a chiunque, nessuno escluso, avendo ogni individuo il diritto di vivere liberamente la propria sessualità senza doverne prevedere l’abuso.
La storie che leggiamo o che ci vengono raccontate sembrano il tragico finale di un gioco, o solo l’agghiacciante voltafaccia di una società che fatica a scindere la sfera privata dalla pornografia. La grande verità è una sola: il movente più gettonato è il divertimento. Nel 2020, l’osservatorio permanente di Permesso Negato (associazione no-profit specializzata nel supporto alle vittime di pornografia non consensuale (Ncp) e di altre forme di violenza online) contava 89 gruppi su Telegram per un totale di 6 milioni di utenti registrati non unici dedicati alla condivisione di materiale pornografico non consensuale e minorile. Al novembre 2021, nel report di Permesso Negato dal titolo “Stato dell’arte del revenge” i numeri raddoppiano: 190 gruppi/canali Telegram attivi nella condivisione di Ncp destinati ad un pubblico italiano, 8.934.900 utenti non unici registrati ai suddetti gruppi/canali, 380.000 utenti unici nel canale più grande preso in esame.
Cosa viene condiviso realmente su questi gruppi?
La fantasia, o meglio la perversione, non ha limiti: foto e video di minori, materiale proveniente da telecamere di sicurezza, foto scattate nei camerini femminili o verso parti intime delle donne a loro insaputa, fotomontaggi di volti e corpi nudi (deep porn), o foto appartenenti a momenti intimi condivisi in una relazione apparentemente dedita al consenso. C’è sicuramente altro, ma ci fermiamo qui.
Il revenge porn vive nei canali che utilizziamo per comunicare ogni giorno, tra caselle mail, Whatsapp e gruppi Telegram. La totale dissociazione tra la condivisione del materiale e il danno recato alle vittime rivela una connessione molto preoccupante tra consenso, appunto, e violenza. Molti dei fenomeni legati al revenge porn dovrebbero accendere in noi un campanello d’allarme sulla mancata diffusione di informazione in merito alla sicurezza del web. Spiegare cos’è il revenge porn nelle scuole vorrebbe dire portare attenzione non solo sul “male di internet”, ma richiamerebbe a tutto tondo un discorso ormai tralasciato sulla sessualità. O meglio, libertà sessuale. Come allo stesso tempo trovare un linguaggio adeguato per parlarne sui media renderebbe il topic culturalmente accettato e più conosciuto. Soprattutto, lo slegherebbe dai fenomeni necessariamente di genere.
Il revenge porn non è imputabile alla vittima
Il sexting, ad esempio, prende il nome dal texting ed è lo scambio di messaggi, foto o video a sfondo sessuale. Tra i giovani è un trend diffuso, ed è stata proprio Save The Children ad affermare che “lo scambio di messaggi sessualmente espliciti è un fenomeno comune tra gli adolescenti e rientra nel processo di costruzione e scoperta della propria identità”. Viviamo in una cultura apparentemente legata ai tabù ma sfacciatamente pronta a soddisfare ogni tipo di consumatore seriale.
Nel caso di un minore, possiamo considerare il sexting come una risposta disfunzionale al bisogno fisiologico di esplorazione, aggravata recentemente dal distacco sociale e dall’isolamento dovuti dall’emergenza sanitaria. Cercare di sperimentare e comprendere le proprie pulsioni sessuali in un’ottica positiva di consenso è segno di benessere, anche la sessualità lo è. Ma anche nel caso del sexting, la diffusione di materiale non consensuale di natura sessuale è reato.
Per questo e per tutti gli altri casi, non è possibile imputare la colpa del revenge porn alla vittima. Sembra ovvio, ma ancora troppo spesso non lo è. Questo violerebbe l’integrità e l’individualità di una persona, minore o adulto, che non può vivere la propria sfera sessuale nella censura e nella paura dell’altro. Ben venga che i giovani sappiano cos’è il sexting, e ben venga che sappiano anche cos’è il revenge porn. É importante che questa parola cominci a suonare familiare un po’ a tutte le fasce di età, così da evitare pericolosissimi fenomeni di normalizzazione sociale o discriminazione di genere. Basti pensare alla facilità con cui una donna venga additata e bollata e derisa dopo la diffusione di un suo video sessualmente esplicito.
Il caso di Tiziana Cantone e il Codice Rosso
Il primo caso più evidente in Italia riguarda Tiziana Cantone, vittima di revenge porn nel 2015. Tiziana Cantone si è tolta la vita un anno dopo il reato e il suo è diventato un caso tragicamente emblematico, un simbolo, tanto da spingere per l’inserimento del reato di revenge porn nel Codice Rosso. Il reato disciplinato dal Codice Rosso, o articolo 612 ter cp. prevede da 1 a 6 anni di carcere, e da 5.000 a 15.000 euro di multa. “La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento”.
Il revenge porn crea un effetto domino sociale doloroso, le persone coinvolte sono costrette in alcuni casi ad allontanarsi dalla propria comunità, città o dal proprio lavoro (come accadde a Tiziana Cantone). Denunciare o esporsi a favore della propria immagine è un atto di coraggio, come ha recentemente fatto Diana Di Meo, arbitra e infuencer ventiduenne. Dopo la diffusione di suoi filmati intimi su gruppi Telegram e Whatsapp (alcuni di questi fatti a sua insaputa), si rivolge ai suoi follower con un video per spiegare l’accaduto:
“Vi ricordo che anche solo la diffusione è reato da Codice Rosso […] ho scoperto dei gruppi Telegram dove c’erano anche altre ragazze che ho avvertito perché è veramente un porcile. Io sto provando a resistere e non tutte le persone riescono, può capitare a chiunque. I gruppi vengono segnalati ogni giorno”.
Diana Di Meo ha sporto denuncia ed è un esempio per tutte le donne che vengono, e ancora verranno, denigrate per il semplice fatto di avere una vita sessuale attiva.
Cosa fare se sei vittima di Revenge Porn
Se si è vittima di Revenge Porn ci si può rivolgere alle seguenti autorità: Carabinieri o Polizia, Procura della Repubblica, Garante della Privacy e Associazioni presenti sul territorio. La vittima deve evitare di denunciare direttamente sui social il nome dell’autore perché potrebbe rischiare una denuncia per diffamazione. La denuncia, inoltre, deve avvenire il prima possibile.
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