Salute mentale: il genere conta, ma la ricerca continua a ignorarlo

Immagina di essere curato con una terapia pensata per un’altra persona. Un corpo diverso dal tuo. Una storia clinica che non ti appartiene. Sembra assurdo, eppure è quello che succede – ogni giorno – a milioni di donne in tutto il mondo, anche quando si parla di salute mentale.

Le differenze di genere – nelle esperienze, nei sintomi, nelle diagnosi e nei trattamenti – vengono spesso ignorate, con il rischio che le esigenze e le vulnerabilità delle donne rimangano invisibili. Ancora oggi, infatti, la ricerca scientifica, in particolare in campo psichiatrico, tende a prendere come standard il corpo e l’esperienza maschile. Con il rischio che ciò che non vi corrisponde rimane invisibile. 

Se la mente femminile non conta

Già nel 2017, un editoriale pubblicato su The Lancet Psychiatry denunciava come la maggior parte della ricerca in questo ambito pscihiatrico ignorasse sistematicamente le differenze di sesso e genere. Su 768 studi clinici registrati su ClinicalTrials.gov, solo l’1% prevede un’analisi dei risultati stratificata per genere. In pratica, si studiano uomini e donne insieme, ma si traggono conclusioni valide per tutti, come se corpi, esperienze e vulnerabilità fossero interscambiabili.

Anche quando la variabile “sesso” viene considerata, i fattori di rischio di genere – come la violenza domestica o la disuguaglianza economica – raramente entrano nelle analisi. Così come non si tiene conto degli ostacoli specifici che impediscono alle donne la partecipazione agli studi, come ad esempio la loro esclusione in età fertile da molte ricerche, in virtù del timore di potenziali danni su un’ipotetica gravidanza.

Un caso su tutti: la schizofrenia

Il caso della schizofrenia è emblematico. Secondo le stime globali, la malattia colpisce più frequentemente gli uomini (con un rapporto di circa 1,4:1). Eppure, un’analisi pubblicata su Psychiatry Research che raccoglie oltre 3.000 studi pubblicati negli ultimi 50 anni – evidenzia che le donne sono storicamente sotto rappresentate nei campioni di ricerca, con una media del 34,8% di partecipanti femminili. Sebbene ci sia stato un aumento nel tempo, la rappresentanza femminile rimane inferiore rispetto alla prevalenza stimata della schizofrenia nelle donne, che è circa il 41,3%. Inoltre, l’analisi ha rilevato una disuguaglianza di genere che interseca quella economica: i paesi a basso e medio reddito tendono a includere una proporzione maggiore di donne rispetto ai paesi ad alto reddito.

Numeri che parlano da soli, e che pongono un interrogativo: possiamo davvero parlare di evidenza scientifica, se questa esclude o sotto rappresenta una parte della popolazione?

Chi guida la ricerca?

Il problema, ovviamente, non è solo nei numeri dei partecipanti, ma anche nelle persone che guidano la ricerca. Secondo una recente analisi di Nature, le donne – pur rappresentando una parte consistente della forza lavoro nella salute mentale – sono fortemente sotto rappresentate nei ruoli di leadership scientifica. Coordinano meno studi, ricevono meno finanziamenti, hanno meno accesso alle posizioni decisionali.

Questo limita la pluralità di sguardi e rischia di tradursi in studi meno equi. In questo modo, infatti, vi è assenza di prospettiva femminile, che può anche significare che alcuni temi – sentiti maggiormente dalle donne – non vengano approfonditi con ricerche ad hoc perché le stesse non hanno potere decisionale per farlo.

Un segnale di cambiamento

Nonostante le criticità evidenziate, il mondo accademico si sta muovendo per cambiare le cose. Ne sono un esempio le linee guida SAGER (Sex and Gender Equity in Research) che esigono dagli autori la disaggregazione dei dati per sesso e genere in tutte le sezioni di cui si compone un articolo scientifico, incluso il titolo e l’abstract.  Applicate in modo sistematico, queste linee potrebbero davvero fare la differenza. Ma serve un impegno concreto da parte degli editori, delle istituzioni e dei ricercatori, perché non restino solo principi su carta.

C’è un’urgenza etica, scientifica e sociale nel riconoscere che il genere è una variabile biologica e culturale centrale anche nella salute mentale e nella ricerca. E che un sapere che esclude, semplifica o ignora, non può dirsi scientifico.

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