Bambini che si presentano da soli nei tribunali. Famiglie di immigrati espulse e separate dai figli che sono, per nascita, cittadini statunitensi. Minorenni valutati dalla giustizia come fossero adulti. E discussioni sulla possibilità di rivedere in modo meno restrittivo le regole sul lavoro minorile. Negli Stati Uniti si sta esacerbando una crisi riguardo al benessere dell’infanzia che, per quanto non nuova, sta prendendo rapidamente risvolti sorprendenti.
L’onda d’urto dei cambiamenti imponenti annunciati, siglati davanti alle telecamere e attuati – effettivamente o meno – dalla Casa Bianca, lascia al suo passaggio scenari difficilmente immaginabili solo qualche tempo fa. Tra licenziamenti di massa in diversi organi pubblici, tagli ai fondi per le agenzie e i programmi sociali, revisione e riduzione degli istituti per la ricerca e la prevenzione, una parte delle decisioni dei primi mesi del 2025 impattano direttamente i bambini. E portano a conseguenze in certi casi devastanti. Alle tante situazioni confuse, al momento, stanno dando una parziale risposta le corti e i giudici. Sono loro, in qualche istanza, a ristabilire almeno temporaneamente lo status quo precedente.
Nonostante questo, però, lo stato dei diritti dell’infanzia appare caotico e preoccupante.A partire dagli ordini esecutivi firmati dal presidente in materia di sistema scolastico, fino ai tentativi di smantellare le protezioni contro il lavoro minorile da parte di alcuni stati.
La disciplina a scuola
Nell’agenda politica di Trump il sistema scolastico ha un ruolo centrale e si è compreso fin dai primi suoi ordini di servizio. Nel marzo scorso il presidente Usa ha firmato l’ordine esecutivo per smantellare il dipartimento dell’Istruzione. L’obiettivo è quello di passare ai singoli stati la responsabilità di decidere in tema di scuola. La chiusura del dipartimento dell’Istruzione è un chiodo fisso della destra americana che lo considera «dannoso» perché promuove politiche progressiste sull’inclusione, l’uguaglianza e la diversità. Il dipartimento amministra i fondi federali per promuovere l’istruzione, tra i quali i 18,4 miliardi destinati alle scuole nelle aree più povere del Paese, e 15,5 miliardi per il sostegno agli studenti con disabilità. Gestisce inoltre i 1.600 miliardi di dollari per i prestiti agli studenti universitari. Fra i timori espressi c’è proprio quello che lo smantellamento della gestione di questi fondi possa portare ad aumentare le disuguaglianze nel paese.
Non si tratta, quindi, solamente della messa al bando di libri «potenzialmente legati all’ideologia di genere o ad argomenti discriminatori che propongono l’ideologia dell’equità». La Casa Bianca il mese scorso ha infatti pubblicato un (ulteriore) ordine esecutivo che, in questo caso, guarda alla disciplina nelle scuole. Nel testo di Reinstating common sense in school discipline policies – cioè, «Ripristinare il buon senso nella politica disciplinare scolastica» – si legge: «Il Governo federale non tollererà più i rischi conosciuti per la sicurezza dei bambini e il benessere nelle classi risultato dell’applicazione di una disciplina scolastica basata sull’ideologia discriminatoria e illegale “dell’equità”». La promozione di questo tipo di approccio, si legge più oltre, vedrebbe «insegnanti e studenti vittime di livelli sempre più elevati di disordini in classe e di violenza» in classe.
Si suggerisce indirettamente che le scuole negli ultimi dieci anni abbiano adottato politiche disciplinari discriminatorie a sfondo razziale. Al momento gli interventi da attuare sembrano vaghi. Ma intanto l’ordinanza sottolinea che le scuole non dovrebbero più concentrarsi sul valutare le differenze dei livelli di disciplina in diversi gruppi. Pensiamo, per esempio, alle minoranze nere o latine.
Questo atteggiamento, si legge, avrebbe portato gli istituti scolastici a non comunicare certi incidenti. E avrebbe portato a decisioni sugli interventi da attuare in base alla razza degli studenti coinvolti, invece che sull’oggettività degli eventi – di fanno punendo meno severamente atti gravi per seguire principi di diversità e inclusione. L’ordine chiede, quindi, un rapporto sullo «stato della disciplina scolastica basata sulle ideologie discriminatorie dell’equità», così da prevenire l’uso .
A spiegare meglio la situazione, Chris Curran, professore dell’Università della Florida, dalle pagine del portale The Conversation. Dal 2014 «le scuole hanno ridotto le sospensioni e adottato misure alternative, come pratiche riparatorie, che si concentrano sullo spiegare passo passo e rimediare al danno invece di togliere gli studenti dalla classe. Ma alcuni hanno visto questa (tendenza) come un indebolimento della disciplina. I politici hanno addirittura sostenuto che questi cambiamenti hanno contribuito alle sparatorie a scuola». Secondo l’autore, inoltre, «questa riformulazione della DEI da diversità, equità e inclusione a discriminazione, dimostr(a) che il nuovo ordine esecutivo non riguarda solo la disciplina scolastica. Fa parte di un dibattito più ampio sul valore e l’impatto della DEI e di una disputa politicizzata sulla scuola».
La posizione descritta da Curran, non è affatto isolata. Torna infatti, in certa forma, anche nella decisione presa in aprile dal Dipartimento dell’educazione, di tagliare di circa un milione di dollari i finanziamenti per la salute mentale. Il contributo era stato approvato dal Congresso durante il mandato di Biden alla Casa Bianca a seguito della sparatoria di massa in una scuola elementare in Texas nel 2022. La motivazione al taglio, secondo l’organismo federale, questi fondi sono in conflitto con le priorità dell’amministrazione Trump.
Il lavoro minorile
Dalla scuola al lavoro minorile. Non mancano i tentativi di rivedere i diritti degli under 18 anche in tema di occupazione, come è avvenuto in Florida.
Nelle scorse settimane si è chiusa una vicenda che, se avesse avuto un esito differente, avrebbe potuto rappresentare un precedente significativo. A metà marzo nello stato era stato presentato un disegno di legge per l’allentamento delle regole sul lavoro dei 15-16enni. Attraverso una serie di interventi, il progetto proponeva di «utilizzare gli adolescenti come sostituti per i lavoratori immigrati che sono nel Paese illegalmente» – come si legge su NewsWeek.
Nello specifico, si prevedeva la possibilità per i teenagers di lavorare di notte durante i giorni di scuola, derogando quindi a restrizioni previste dalla legge vigente che impedisce ai 16enni di iniziare attività lavorative prima delle 6:30 o dopo le 23. Gli under 16, oggi, possono essere impiegati per un massimo di 30 settimanali, durante l’anno scolastico. La nuova proposta, puntava a eliminare queste limitazioni e a cancellare una pausa per il pranzo garantita.
Il governatore della Florida, Ron DeSantis, intervenendo a durante un evento un paio di mesi fa, aveva giustificato il piano. «Perché diciamo che abbiamo bisogno di importare stranieri, anche illegalmente, quando gli adolescenti (prima) lavoravano nei resort?». E si chiedeva inoltre: «Cosa c’è di sbagliato nell’aspettarsi che i nostri giovani lavorino part-time? Era così quando sono cresciuto io».
Per quanto questa proposta risulta oggi “rinviata a tempo indeterminato”, rappresenta comunque un tentativo chiaro di alleggerire le regole sull’occupazione under 18. Per altro non isolato, dal momento che secondo il think tank Economic Policy Institute (EPI) tra il 2021 e il 2023 almeno dieci stati, dall’Arkansas, al Minnesota e dall’Ohio al Nebraska, hanno introdotto leggi che riducono le tutele sul lavoro minorile. La stessa EPI, però, segnala anche che il 2024 è stato l’anno in cui è cresciuto il numero di stati che ha deciso di rinforzare le proprie leggi su questo tema. Nel dettaglio, 8 hanno promulgato misure per la riduzione del lavoro minorile e 20 hanno proposto revisioni per aggiornare disposizioni deboli e obsolete.
I figli di genitori immigrati
La giustificazione della proposta della Florida si inserisce, in parte e indirettamente, nella linea dura dell’amministrazione Trump contro l’immigrazione illegale. Il tema continua a essere centrale per il 47esimo presidente che lo aveva battuto nel suo primo mandato alla Casa Bianca e cavalcato lo scorso anno durante la campagna elettorale. Il flusso di migranti, descritto come “invasione”, era stato definito già in una delle prime direttive in gennaio, come «un’emergenza nazionale al confine meridionale degli Stati Uniti». A contrasto, le azioni previste mirano, da una parte, ad allargare il gruppo di chi può essere espulso. E dall’altra, ad accelerare le procedure di allontanamento e i processi di rimpatrio anche attraverso l’inasprimento delle restrizioni per chi entra illegalmente nei territori americani.
Ricordava il New York Times, che sotto l’amministrazione Biden, il 40% dei 14 milioni circa di immigrati senza documenti godeva di una qualche autorizzazione per vivere o lavorare negli Stati Uniti. Da quando il 47esimo presidente ha assunto il suo ruolo, questi programmi di protezione sono stati velocemente rimossi. E se una serie di tutele sovrapposte permetteva a molti comunque di restare nel Paese – esempio su tutti, i richiedenti asilo – in aprile il dipartimento di giustizia ha esortato i giudici a rifiutare rapidamente tutte le domande ritenute «difficilmente accettabili». Questo ha portato la percentuale dei rifiuti a toccare quel mese il record massimo del 79%.
Dietro a queste decisioni si accumulano storie di famiglie deportate. Rimpatri di interi nuclei familiari che in molti casi hanno visto l’espulsione anche di minorenni che sono cittadini americani perché nati entro i confini. O vicende di bambini, invece, separati dai genitori e portati in centri di accoglienza minorile anche a fronte della firma di documenti di rimpatrio congiungo. È quello che è successo, per esempio, a Yorely Bernal, giovane madre già separata dal marito incarcerato a Cecot, rimandata in Venezuela senza la figlia di due anni. Nonostante Bernal avesse optato di uscire dagli USA insieme alla bimba, la piccola è finita nelle maglie dell’assistenza statale. Divisa tra famiglie affidatarie e strutture di cura per circa un anno, mamma e bambina sono state riunite a metà maggio.
Per quanto specifico, non si tratterebbe di un caso unico. Considerando che, secondo gli ultimi dati dell’Ufficio per il reinsediamento dei rifugiati, i bambini migranti sarebbero stati in strutture di accoglienza mediamente 217 prima di essere ricongiunti con un membro della famiglia (genitori o parenti). Sotto l’amministrazione Biden, questa media sarebbe stata di 35 giorni.
Quelli che restano soli. Quelli che viaggiano non accompagnati
Non tutti i minori di 18 anni entrano nei confini americani, però, insieme a un familiare. E anche verso questi minorenni “soli””* si estende la linea dura della Casa Bianca contro l’immigrazione illegale. In particolare, riportava la CNN, a marzo è stato «ordinato ai fornitori di servizi legali che lavorano con minori migranti non accompagnati di interrompere le loro attività». Con lo stop di parte di un contratto da 200 milioni di dollari per finanziare avvocati e servizi legali, tantissimi di questi ragazzi sono privati del supporto specializzato per districarsi tra procedure che potrebbero consentirgli, invece, di restare legalmente nel Paese. In conseguenza di simili blocchi, privi di un accompagnamento adatto, non sono mancati casi di bambini anche in tenera età, che si sono presentarsi da soli davanti ai tribunali per l’immigrazione.
Tra le altre organizzazioni, queste misure interessano direttamente l’Acacia Center for Justice, no-profit che assiste oltre 26mila bambini attualmente in custodia o appena rilasciati dalle strutture dell’Ufficio per il reinsediamento dei rifugiati. La sua direttrice esecutiva, Shaina Aber, commentava: «La decisione dell’amministrazione di sospendere questo programma minaccia il giusto processo, impatta in modo sproporzionato i bambini vulnerabili, e mette a rischio di ulteriore sofferenza e sfruttamento quelli che già hanno subito gravi traumi». Per quanto, come indicava la CNN, «lo stop difficilmente interesserà i bambini già rappresentati (dalle organizzazioni)», comunque «il brusco taglio dei fondi potrebbe forzare i gruppi a ridimensionarsi o chiudere completamente».
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* Spesso questi minorenni non hanno “guardiani legali”, seppure siano nel Paese con zii, zie, cugini o fratelli.
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