I brand che investono in inclusività sono aumentati negli ultimi anni, rendendo la diversity una leva concreta per il successo. Ma si tratta di un cambiamento reale o solo di facciata per cavalcare il consenso sociale? «L’errore più comune che si fa è mettere in atto un’inclusione dovuta ma non sentita», risponde Emma Ferrarotti, founder di Queerky, un’agenzia di management sui generis che sta provando a fare davvero la differenza nel mondo della pubblicità e dell’intrattenimento, dando visibilità a talenti che spesso restano ai margini. Attori, professionisti dello spettacolo, della pubblicità, del cinema, della moda e del web di ogni età, etnia, identità di genere e con disabilità, sono infatti rappresentati con cura e consapevolezza dall’agenzia.
Dietro i progressi visibili – come la crescente presenza di persone di etnie diverse nelle pubblicità – si nasconde una realtà ancora ambivalente, secondo Ferrarotti: «L’inclusione dovrebbe essere un processo naturale, che risponde alla scelta di voler rappresentare la società intera. Capita che nei brief di casting sia richiesta “una persona con la sindrome di Down” o “una ragazza in carrozzina”, senza un reale contesto. Come se fosse una casella da spuntare. Ma l’inclusione non è un’inquadratura, è una prospettiva. Le richieste partono dalle agenzie creative e dai brand: è lì che si decide come aprire davvero alla diversity e perchè».
Continuità e coerenza per impatti duraturi
A mancare, troppo spesso, è la competenza. Quando si raccontano temi complessi come la disabilità, il disagio mentale, o le marginalità sociali, farlo senza conoscenza porta a rappresentazioni falsate o dannose. Prosegue Ferrarotti: «Non si può scrivere un film sulla disabilità senza coinvolgere qualcuno che la conosca davvero, per esperienza diretta o professionale. È come organizzare un convegno sulla salute femminile senza una sola donna nel panel. Lo si è fatto in passato ad esempio mettendo persone in carrozzina che non erano davvero in carrozzina, lo si è fatto rappresentando situazioni non autentiche, oggi invece c’è voglia credo di autenticità: è uno specchio e dovrebbe essere esattamente com’è, senza voler edulcorare i fatti».
Ecco perché la consapevolezza dovrebbe nascere a monte, nei team creativi, nelle stanze dove si genera l’immaginario. Ancora una volta, sono le aziende e i brand a costituire la mente strategica per il cambiamento: attraverso la consapevolezza della scelta, si possono rendere le politiche DEIA (Diversity, Equity, Inclusion, Accessibility) realmente impattanti. Senza dimenticare che l’inclusione oggi non è solo una questione culturale, ma anche un asset strategico per le aziende.
Il Diversity Brand Index (DBI), ideato da Fondazione Diversity e Focus Management, è una ricerca italiana volta a misurare il livello di inclusione dei brand in una prospettiva customer based, verificando il reale impegno delle aziende sulla DEIA. L’indagine, realizzata tramite una survey web con 1.005 rispondenti, ha rilevato che il numero di brand associati alla DEIA è aumentato del 65% rispetto al 2024 e che 7 consumatori su 10 preferiscono brand che parlano di inclusione. Il report riferisce che, laddove le iniziative non siano costruite ad hoc per consumatrici e consumatori finali, non si producono effetti significativi sulle loro percezioni. La continuità e la coerenza si dimostrano fondamentali per generare impatti duraturi.
Formazione, accesso e riconoscimento del talento

Emma Ferrarotti
Per i talenti marginalizzati, però, la strada per accedere alle opportunità è ancora tortuosa. A partire dall’accesso alla formazione: per esempio nel campo in cui opera Queerky, lo spettacolo e la pubblicità, basti pensare che le scuole di recitazione e le accademie sono spesso costose e poco rappresentative. Questo scoraggia chi non si sente rappresentato e alimenta l’idea che certe carriere siano “per altri”.
Prosegue Ferrarotti: «Molte persone non si immaginano nemmeno nel mondo dello spettacolo, perché nessuno con le loro caratteristiche è mai stato rappresentato. Serve un lavoro educativo profondo, ma anche risorse concrete, come borse di studio dedicate. E servono agenti capaci di vedere che il talento si presenta in mille forme. Non devono essere così importanti le caratteristiche fisiche di un soggetto, l’unica cosa che da agente devo valutare, che per me dovrebbe essere centrale, è appunto quanto è talentuosa quella persona e quanto è preparata».
L’unità nella diversità
La chiave di volta, dunque, è valutare il talento e la preparazione, non la corrispondenza a un’estetica né tantomeno alla richiesta di un briefing pubblicitario. Che poi, volendo guardare, si tratta della meritocrazia tanto sbandierata da chi si dice contrario alle quote di rappresentazione o alle politiche DEI. Difficile far comprendere che, senza queste politiche e questo sguardo, anche il merito resta invisibile, nascosto sotto una coltre di consuetudini e stereotipi.
Eppure bisogna continuare a ripeterlo, anche e soprattutto in un momento in cui si inizia a temere il contraccolpo dagli USA, dove il dibattito sulla DEI sta attraversando una fase complessa, con un crescente backlash da alcune parti politiche e sociali. In Italia il clima sembra più stabile, almeno per ora.
«L’Europa ha un motto straordinario: in varietate concordia, cioè l’unità nella diversità» cita Ferrarotti. «Se nel piccolo non viene fatto nulla per arrivare al raggiungimento di questo grande obiettivo, allora c’è ipocrisia, una sorta di autocompiacimento, senza una vera e propria consapevolezza di quello a cui possiamo ambire. Io credo che le persone siano molto più intelligenti di quanto alcuni politici vogliano far passare. Anzi, vedo una sostanziale disgiunzione tra la politica e quello che è ormai questo movimento divulgativo, che è quasi un movimento civile».
Il futuro, secondo Ferrarotti, passa dalla normalizzazione dello sguardo. Far sì che il pubblico si abitui a una rappresentazione autentica e plurale, fino a renderla ordinaria, non straordinaria. «Non si tratta di essere buoni, ma di essere realisti. La società è complessa, varia, stratificata. Rappresentarla così com’è è un dovere di chi comunica».
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