Lavorare, per molti, non significa solamente affrontare scadenze, gestire il carico operativo e partecipare alle riunioni. Per il 69,6% degli italiani, il vero multitasking si gioca fuori dall’ufficio, nel loro ruolo di caregiver, tra pannolini, impegni scolastici, medicine, ospedali e residenze sanitarie assistenziali.
Secondo l’Osservatorio Nazionale sui bisogni di welfare di lavoratrici e lavoratori con responsabilità di cura, il 36% dei caregiver si occupa di figli minorenni, mentre il 46% di familiari anziani, malati o disabili. Il 18% si prende cura di entrambi: è la “generazione sandwich”, schiacciata tra più di una responsabilità. Una fascia di popolazione che inevitabilmente sperimenta importanti ricadute sul proprio benessere fisico, mentale e finanziario.
Considerando che, come anticipato, il ruolo di caregiving si somma a quello professionale, quale peso può avere il datore di lavoro o l’azienda nell’equazione?
Caregiving al lavoro
Come riporta l’Osservatorio, un lavoratore dipendente su tre percepisce di trascurare le proprie responsabilità familiari, mentre il 19% il lavoro. Nel 70% dei casi, la conciliazione si basa su soluzioni “fai-da-te”, dal momento che troppo spesso manca un supporto capillare e sistematico da parte dell’azienda.
Un dato preoccupante, specialmente alla luce di un’evidenza che, anche se relativa al mercato americano, fa ulteriormente riflettere: solo il 24% dei datori di lavoro afferma che il ruolo di caregiver influisca negativamente sulla produttività dei dipendenti. Nonostante l’80% di questi ultimi abbia dichiarato il contrario. Un cortocircuito che sembra dimostrare inconsapevolezza – se non addirittura negazione – da parte delle aziende.
La realtà, tuttavia, è difficile da ignorare. La letteratura riporta che il caregiving ha un costo non indifferente: circa 5600 dollari annui per dipendente. Una cifra che sale nel caso ci si prenda cura di persone anziane.
Il caregiving non si traduce solo in numeri e tempo: chiunque viva questa condizione, lo sa. Si tratta di gestire un sovraccarico emotivo fatto di frustrazione, stanchezza cronica e, spesso, un senso di isolamento che il lavoro può acuire. Eppure, il caregiving avrebbe molto da dire alle organizzazioni, se solo glielo si concedesse.
Riscrivere il lavoro attraverso la cura
Il caregiving mette in discussione l’idea stessa di produttività. Prendersi cura di una persona non è una questione di ore lavorate o obiettivi raggiunti, ma di come si riesce a stare in relazione con lei. Il valore del proprio operato non si misura attraverso i risultati, ma nella capacità di accompagnare e di sostenere un’altra persona in un percorso incerto, spesso fuori dal proprio controllo, nella consapevolezza che sia impossibile “aggiustare tutto”. Questa attitudine, se riconosciuta e valorizzata, può impattare positivamente sul modo in cui si gestiscono le relazioni sul lavoro. Specialmente in periodi di discontinuità, cambiamento e crisi.
La vera sfida per le aziende è superare la visione del caregiving come peso, ostacolo oppure problema da risolvere. Va visto per ciò che è: una risorsa che può essere integrata all’interno delle prassi organizzative. Il punto, è capire che i caregiver incarnano una forma di competenza emotiva e gestionale che potrebbe ridefinire non solo le relazioni tra colleghi e colleghe, ma addirittura il concetto stesso di leadership.
Certamente, sono poche le aziende pronte per questo passo. Tuttavia, in un mondo in cui il lavoro sta diventando sempre più automatizzato, sono proprio i tratti più umani della cura e dell’empatia a poter fare la differenza.
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