Arabia Saudita, più di 300 esecuzioni nel 2024 ma sport e imprese non guardano ai diritti calpestati

Ha presieduto la commissione Onu sullo status delle donne nel corso della 68esima sessione annuale delle Nazioni unite. Ma nel suo territorio le donne vengono informate del loro divorzio tramite sms. Si candida ad accogliere i Mondiali di calcio del 2034 nel rispetto dei diritti umani. Ma, come sottolineano Amnesty International e Sport & Rights Alliance in un rapporto di 91 pagine, non affronta la grave repressione della libertà di espressione esercitata dal suo governo. Ospiterà il Forum annuale sulla governance di Internet dal 15 al 19 dicembre. Ma nelle sue carceri ci sono persone minacciate, imprigionate e sottoposte a sparizione forzata solo per aver reso noto sul web il proprio dissenso. Tutto questo sta accadendo in Arabia Saudita.

Mentre da anni il Paese cerca di “ripulire” la sua reputazione promuovendo eventi a livello globale, i diritti umani continuano ad essere calpestati. E per le donne la situazione peggiora. La contraddizione tra l’immagine che il Paese sta cercando di costruire a livello internazionale e la situazione reale emerge chiaramente dai dati: nel Global Gender Gap Index 2024, il rapporto introdotto per la prima volta dal World Economic Forum nel 2006 per valutare i progressi nella parità di genere nel mondo, l’Arabia Saudita occupa la 126esima posizione sui 146 Paesi analizzati.

Diritti, per le donne sono vincolati all’autorità del “guardiano”

Dalla nascita fino alla morte, passando per gran parte delle scelte della vita quotidiana, in Arabia Saudita la vita di una donna è controllata da un uomo. Ogni donna saudita ha un tutore – il padre, il marito o il fratello e in alcuni casi il figlio – che acquisisce il potere di decidere su tutte le sfere della sua vita: è il “sistema del guardiano” (in arabo welayah), per cui le donne sono dipendenti dal wali, ovvero un tutore “protettore”.

La prima legge codificata dell’Arabia Saudita sullo status personale, emanata in occasione della Giornata internazionale della donna del 2022, sancisce formalmente la tutela maschile sulle donne, come ha affermato la ong Human Rights Watch. La legge contiene disposizioni discriminatorie nei confronti delle donne in merito a matrimonio, divorzio e decisioni sui loro figli.

La legge sullo status personale richiede alle donne di ottenere il permesso di un tutore maschio per sposarsi, codificando la prassi consolidata nel Paese. Le donne sposate sono tenute a obbedire ai loro mariti in «maniera ragionevole». Il sostegno finanziario di un marito è subordinato all’obbedienza di una moglie che può perdere il diritto a tale sostegno se rifiuta senza una «giustificazione legittima» di fare sesso con lui, trasferirsi o vivere nella casa coniugale o viaggiare con lui. La legge stabilisce inoltre che nessuno dei coniugi può astenersi da relazioni sessuali o convivenze senza il consenso dell’altro coniuge, implicando un diritto coniugale al rapporto sessuale. Inoltre, mentre un marito può divorziare unilateralmente dalla moglie, una donna può presentare istanza a un tribunale per sciogliere il contratto di matrimonio solo per motivi limitati e deve «dimostrare il danno» che rende la continuazione del matrimonio «impossibile» entro tali motivi. La legge non specifica cosa costituisca “danno” o quali prove possano essere presentate a sostegno di un caso, lasciando ai giudici ampia discrezionalità.

I padri tutori predefiniti dei figli

I padri rimangono i tutori predefiniti dei loro figli, limitando la capacità di una madre di partecipare pienamente alle decisioni relative al benessere sociale e finanziario del figlio. Una madre non può agire come tutrice del figlio a meno che non venga nominata da un tribunale: diversamente avrà un’autorità limitata per prendere decisioni per il benessere del figlio, anche nei casi in cui i genitori non vivono insieme e le autorità giudiziarie decidono che il figlio debba vivere con la madre. Il potere decisionale del padre resta prioritario: può cercare di porre fine alla custodia del figlio da parte della madre sostenendo che è “incapace”. O richiederne la sospensione o nel caso in cui la donna dovesse risposarsi con qualcuno che non conosce il bambino, a meno che non sia nel «miglior interesse del bambino».  Come riporta Amnesty International, una corte d’appello ha ribaltato un precedente verdetto che aveva concesso alla cittadina statunitense Carly Morris la custodia di sua figlia. La sentenza si era basata sull’art. 128 della legge sullo status personale, in base al quale un custode perde la custodia se sposta la sua residenza in un altro luogo dove gli interessi del minore non sono tenuti in considerazione. Carly Morris non aveva ricevuto alcuna notifica delle sessioni di tribunale che si sono svolte in sua assenza e il suo ex marito da allora non le ha più permesso di comunicare con la figlia. In aperta opposizione a quello che gli standard internazionali definiscono, appunto, «il miglior interesse del bambino».

Divorzio, dal 2019 obbligo di notifica tramite sms

Alcune riforme del sistema di tutela maschile negli ultimi anni hanno permesso alle donne qualche importante progresso come andare al cinema e negli stadi, entrare nelle forze armate, richiedere passaporti, aprire attività senza il consenso maschile e guidare con la patente senza la presenza di un tutore maschio. Tuttavia, quelli che dovrebbero essere diritti garantiti rimangono deboli concessioni che migliorano la vita delle donne ma non la liberano totalmente dall’autorità maschile.

È il caso del divorzio: nel 2019 una direttiva del ministero della Giustizia ha messo fine ai cosiddetti “divorzi segreti”, ovvero quei casi in cui il marito metteva fine al matrimonio senza informare la moglie. Con la modifica introdotta dalla direttiva, i tribunali sono tenuti a informare le mogli sulle sentenze di divorzio che le riguardano attraverso l’invio di sms sui loro telefoni.

«Saranno avvertite di qualsiasi cambiamento del loro stato civile attraverso un messaggio» ha reso noto il ministero della Giustizia, aggiungendo che con la nuova disposizione potranno anche «visualizzare i documenti relativi alla risoluzione dei loro contratti di matrimonio attraverso il sito web del dicastero». Una piccola breccia nel rigido sistema di tutela maschile per cui gli uomini potevano ripudiare le mogli a loro insaputa: bastava che il marito pronunciasse la formula di rito («Tu (nome della donna) sei divorziata») e registrasse il divorzio in tribunale, senza alcuna comunicazione alla consorte, perché questo diventasse effettivo. La notifica via sms è quindi un passo avanti perché, come ha sottolineato l’avvocato divorzista Somayya Al-Hindi, citato dalla Saudi Gazette, «questo metterà fine a ogni tentativo di imbrogliare o impadronirsi dell’identità delle donne per assumere il controllo dei loro conti bancari e proprietà, usando procure precedentemente emesse».

Nel 2024 superata la soglia delle 300 esecuzioni

Se nella sfera privata le donne stentano ad avere diritti, in quella pubblica la situazione peggiora: chi ha provato a esprimere dissenso o a rivendicare il proprio spazio è in carcere o è stato ucciso. Secondo i calcoli dell’agenzia di stampa Afp, l’Arabia Saudita ha superato la soglia delle 300 esecuzioni nel 2024. La pena di morte è stata eseguita contro tre persone condannate per traffico di droga e un’altra condannata per omicidio, ha riferito l’agenzia di stampa ufficiale saudita, citando dichiarazioni del ministero degli Interni, portando il totale per l’anno a 303.

Un dato che non arriva all’improvviso: già lo scorso 28 settembre la Saudi Press Agency aveva dato notizia dell’esecuzione numero 198 dall’inizio dell’anno. Nei soli primi nove mesi del 2024 le autorità saudite avevano superato anche il macabro record delle 196 esecuzioni del 2022. Le 198 esecuzioni da gennaio a settembre sono il numero più alto mai registrato dal 1990.

Il problematico forum sulla gestione di Internet a Riyadh, mentre il governo saudita censura il web

È in questo contesto che la capitale saudita Riyadh ospiterà nei prossimi giorni il Forum annuale sulla governance di Internet: durante l’evento si incontreranno i rappresentanti di oltre 160 Paesi e avranno la parola mille relatori durante più di 300 sessioni e workshop. Il forum, che durerà cinque giorni, prevede il lancio di piattaforme, progetti e la firma di accordi di cooperazione tra governi, privati e ong: 40 organizzazioni non governative e per i diritti umani hanno diffuso una dichiarazione congiunta nella quale hanno sollecitato le autorità saudite a scarcerare immediatamente tutte le persone condannate solo per aver espresso le loro opinioni online.

Le 40 organizzazioni hanno fatto notare quanto sia ipocrita che l’Arabia Saudita ospiti l’evento mentre continua a minacciare, imprigionare e sottoporre a sparizione forzata chi, utilizzando la rete, rende noto il proprio dissenso o promuove i diritti umani. Molte persone attiviste che difendono i diritti – e che solitamente prendono parte all’incontro annuale – hanno espresso forti preoccupazioni quest’anno rispetto alla propria partecipazione, temendo di essere minacciate, poste sotto sorveglianza o arrestate.

Le condanne contestate dalle ong

Nel comunicato ufficiale con cui ha annunciato l’evento, l’Autorità saudita per la governance digitale ha parlato di un futuro promettente, sottolineando i recenti successi del regno nel settore digitale. Ma evitando di menzionare le criticità del proprio sistema autoritario anche in relazione alla libertà di espressione: l’attivista per i diritti delle donne Salma al-Shehab è stata arrestata nel gennaio 2021. Due anni dopo, al termine di un processo gravemente iniquo, è stata condannata a 27 anni di carcere – seguiti da altri 27 anni di divieto di viaggio – per false accuse di terrorismo derivanti da alcuni suoi tweet a sostegno dei diritti delle donne. Per lo stesso motivo, nel gennaio 2024, una corte antiterrorismo ha condannato a 11 anni di carcere un’altra donna, Manahel al-Otaibi: la sua ulteriore colpa sarebbe stata quella di condiviso delle sue foto scattate in un centro commerciale senza indossare l’abaya, il vestito tradizionale saudita.

Abdulmajid al-Nirm, un vigile urbano in pensione, è stato messo a morte il 17 agosto per «sostegno a proteste contro il governo» nella provincia orientale a maggioranza sciita. Arrestato nel 2017, tenuto in isolamento per un mese e mezzo e impossibilitato a vedere un avvocato per due anni, nel 2021 era stato condannato a nove anni di carcere per «tentativo di destabilizzare la fabbrica sociale e l’unità nazionale attraverso la partecipazione a manifestazioni, sostenendo rivolte, cantando slogan contro lo stato e i suoi regnanti», «opposizione all’arresto e al processo di persone ricercate», nonché per aver fatto parte di una chat di gruppo su whatsapp in cui c’erano anche alcuni dei ricercati.

Abdulrahman al-Sadhan, un operatore dell’associazione internazionale Mezzaluna rossa, è stato condannato nell’aprile 2020 a 20 anni di carcere seguiti da altri 20 anni di divieto di viaggio per aver pubblicato dei tweet satirici. Nasser al-Ghamdi, un insegnante in pensione, è stato condannato a morte nel luglio 2023 per aver criticato le autorità saudite su X e aver pubblicato video su YouTube. Questi sono alcuni dei casi emersi che già basterebbero a sottolineare quanto avanzato dalla lettera congiunta delle associazioni: «L’Arabia Saudita deve liberare tutti gli individui detenuti arbitrariamente solo per la loro espressione online prima di ospitare l’Internet Governance Forum (IGF) delle Nazioni Unite a Riyadh».

Sportwashing, i mondiali 2034 in Arabia Saudita per ripulire la reputazione globale

Si chiama “sportswashing” ed è il tentativo di ripulirsi la reputazione ospitando eventi sportivi di grande richiamo mediatico. L’Arabia Saudita lo fa da anni: ha ospitato la Supercoppa spagnola, ospiterà la Supercoppa italiana dal 2 al 6 gennaio e la Federazione internazionale delle associazioni calcistiche (Fifa) l’ha valutata positivamente per i mondiali di calcio 2034.

L’Assemblea generale straordinaria della Fifa procederà con l’assegnazione ufficiale dei mondiali di calcio 2034 all’Arabia Saudita il prossimo 11 dicembre: essendo l’unica candidata, non ci sarà suspense. La sua candidatura è appoggiata da ben 170 federazioni e si lega alla valutazione messa a punto da Fida e da  AS&H Clifford Chance, partner di uno dei più grandi studi legali al mondo, il londinese Clifford Chance, che si vanta di «collaborare con le più grandi ong sui diritti umani e associazioni della società civile al mondo».

Il rapporto valutativo non contiene alcuna sostanziale analisi delle gravi e diffuse violazioni dei diritti umani denunciate dalle organizzazioni per i diritti umani. A riguardo Amnesty International e altre dieci organizzazioni hanno espresso grande preoccupazione: «È chiaro da oltre un anno che la Fifa ha intenzione di rimuovere tutti i possibili ostacoli che si frappongono alla decisione di assegnare al principe della Corona saudita Mohammed bin Salman i mondiali di calcio del 2034. Producendo un rapporto clamorosamente insufficiente, il partner di uno dei più grandi studi legali al mondo la cui fama è per lo più nota per la sua competenza nel campo dei diritti umani, ha contribuito a rimuovere l’ultimo impedimento fondamentale» ha commentato James Lynch, condirettore di FairSquare, che ha guidato l’azione comune nei confronti di AS&H Clifford Chance. Lo scorso maggio, difensori dei diritti umani, attivisti e intellettuali sauditi hanno presentato il documento “A People’s Vision for Reform in Saudi Arabia” articolando una serie di principi e riforme che dovrebbero essere alla base di un’Arabia Saudita che rispetta i diritti umani. Ma invece di aprire il dialogo con la società civile, le autorità saudite reprimono ogni forma di dissenso.

La mancanza di confronto arriva anche dai vertici sportivi: sono passate ormai diverse settimane e il presidente della Fifa Gianni Infantino non ha ancora risposto alla lettera aperta inviata da 133 calciatrici professioniste da tutto il mondo affinché il governo del calcio mondiale receda dall’accordo di sponsorizzazione con Saudi Aramco, il colosso degli idrocarburi saudita partner dei mondiali di calcio maschili del 2026 e di quelli femminili del 2027.

Come si può sposare la causa ambientalista ed essere sponsorizzati da uno dei maggiori colossi petroliferi mondiali? Come si possono conciliare i valori di tolleranza e rispetto delle diversità facendosi supportare da un Paese che non garantisce i diritti umani? È questo che si chiedono le giocatrici, mettendo nero su bianco i loro interrogativi e interpretando le perplessità diffuse sulla la situazione attuale in Arabia Saudita dove, sui diritti, ci sono troppe domande e pochissime risposte.

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