Slash workers, quando un lavoro solo non basta

Li chiamano “slash workers”. Ovvero persone che fanno un lavoro e poi un altro (slash) e poi un altro ancora. Giornalista / insegnante di yoga / consulente per aziende. In alcuni casi sono lavori “bancomat”, che servono per arrivare alla fine del mese. In altri, sono i lavori della passione. Ma tutti hanno in comune un nuovo approccio al mondo del lavoro in cui la vita stessa diventa uno slash tra una professione e l’altra.

Libera scelta o falsa partita iva?

Ho aperto la mia partita Iva dieci anni fa, l’ho fatto con l’incoscienza delle prime volte. Avevo iniziato a lavorare da pochi mesi e il mio futuro professionale lo vedevo autonomo. Così, ho fatto il (temutissimo) passo. Come me, ad appartenere al mondo delle partite Iva sono più di 4 milioni di persone. L’Italia è il primo paese europeo per numero di lavoratori e lavoratrici autonome (Statista, 2023). Nel 2023, fa sapere il Mef, sono state aperte 492.176 nuove partite Iva. Ma non tutte sono partite Iva per scelta.

Per alcune è una strada subita. Sono le cosiddette “false partite Iva”: un lavoro dipendente mascherato da lavoro autonomo in cui si è assoggettati ai turni e non si ha nessuna delle tutele appartenenti a chi è assunto a tempo determinato o indeterminato. Secondo l’indagine di Eurofund sul Self-Employment, le false partite Iva hanno il doppio delle probabilità di avere difficoltà ad arrivare a fine mese, meno prospettive di carriera e operano con richieste che sottopongono a un elevato carico di stress.

Personalmente, ho sempre temuto la mono-committenza e questo mi ha portata ad accettare più di un lavoro nello stesso momento, anche se si trattava di lavori non particolarmente interessanti né economicamente vantaggiosi. “All’inizio accetti tutto”, dicevano. Ma nessuno mi aveva detto che avrei dovuto imparare a dare un valore al mio tempo. Il tempo del lavoro e il tempo per me. Un valore economico e un valore legato al benessere mentale. Per un freelance, il tempo libero è considerato improduttivo, dunque, costoso. Così, si tende a riempirlo di committenze. Le conseguenze sono chiare: disturbi del sonno, ansia, dolori psicofisici. Eppure, della cosiddetta freelance anxiety se ne parla poco, o nulla. I blog per autonomi, però, sono pieni di malessere.

I lavori bancomat

«Abbiamo bisogno di “lavori bancomat”, ovvero lavori che non ci piacciono ma ci consentono economicamente di sopravvivere, per poter fare, contemporaneamente, ciò che davvero amiamo» spiega Chiara Battaglioni, che prosegue: «Per questo ci definiscono “slash workers”. E lo sono stata anche io: mentre avviavo la mia attività da professional organizer, ho lavorato come project manager per una società che faceva formazione sulle soft skills e come insegnante di pattinaggio artistico a rotelle. Dunque: professional organizer / project manager / insegnante».

Ma raddoppiare le attività, non significa raddoppiare il tempo a disposizione. «Mi sono ritrovata ad avere colleghi e clienti che, nello stesso momento, contavano su di me. È drenante in termini di energia, bisogna imparare a focalizzarsi su ogni singolo lavoro e creare dei filtri mentali» – continua Chiara che dopo tre anni, una volta raggiunta la stabilità economica, ha lasciato le “attività slash”.

Un lavoro per la passione e uno per la pagnotta

Il mondo dello slash work è stato indagato da Acta, Associazione italiana dei freelance, con il progetto europeo SWIRL – Slash Workers and Industrial ReLations. La fotografia che ne è emersa è molto complessa. Gli slash workers italiani sono spesso altamente scolarizzati: laureati o dottorandi. Tante le donne e i lavoratori della creatività. Nel settore dell’editoria libraria, il 44% dei rispondenti ha dichiarato di avere un secondo lavoro. «È il classico esempio di come un lavoro serva per la passione e uno per la pagnotta» commenta Anna Soru, per 18 anni alla presidenza di Acta, oggi coordinatrice di Acta ricerche.

Il reddito è un nervo scoperto: anche tenendo in piedi più di una professione, circa il 75% degli intervistati ha affermato di guadagnare 30 mila euro lordi all’anno e il 23% di essere sotto la soglia dei 10 mila euro lordi l’anno. Meno del 10% ritiene di sentirsi protetto in caso di pensione, malattia, maternità e infortunio e solo il 20% paga assicurazioni volontarie e versa contributi per una pensione integrativa.

«Il tema della previdenza è centrale: secondo i dati forniti dall’Inps, oltre 1 milione e 400 mila persone sono iscritte a una doppia Cassa, sono il 5,4% ed è un dato sottostimato perché non considera gli iscritti alle Casse private. La doppia iscrizione è fortemente penalizzante: è un aggravio contributivo considerevole a cui non corrisponde un raddoppio dei benefici goduti» – denuncia Soru. Eppure, nonostante il mondo del lavoro reclami flessibilità e innovazione, le cose non sembrano cambiare: «Ci aspettiamo un aumento del numero delle aziende che, affamate di competenze, si rivolgerà a consulenti esterni, soprattutto nei servizi avanzati, ma il sistema non sta evolvendo in modo altrettanto dinamico ed equo».

Il futuro è dei contractor

La società di consulenza globale Gartner sostiene che entro il 2025 i freelance o i contractor nel mondo saranno il 40% della forza lavoro. Parliamo di persone con una professionalità elevata che mettono le loro competenze a disposizione delle aziende per uno scopo preciso. Secondo Alessandro Rimassa, imprenditore founder di Radical HR, le aziende dovranno imparare a integrare e coltivare questa forza lavoro mista, adottando nuovi approcci.

«Già oggi ci sono società che operano come “agenzie per freelance” nel mondo digital e gestiscono contractor in modo professionale. Questo approccio dà alle persone la possibilità di essere imprenditrici di loro stesse e al contempo fa sì che le aziende possano concentrarsi sui nuovi trend di mercato» – spiega Rimassa. E aggiunge: «Le aziende sono molto preoccupate e nella maggior parte dei casi non sono pronte. Le organizzazioni che oggi stanno richiamando le persone in presenza sono quelle che in futuro soffriranno di più. Bisogna fare un salto di mentalità e rendersi conto che non esiste più una verticalità tra datore di lavoro e dipendente, ma che, oggi, questo è un rapporto alla pari o, addirittura, una relazione a parti invertite». Una trasformazione che, secondo Rimassa, presto riguarderà anche i blue collar.

Una sana cultura del lavoro autonomo

Il rapporto tra aziende e freelance dovrà riequilibrarsi. «È intollerabile che ci siano ancora aziende che pagano a 60 giorni» – fa notare Barbara Reverberi, docente allo IED e fondatrice di Freelance Network Italia, community di professionisti per la comunicazione. Nelle sue classi, di fronte a studenti che in buona parte lavoreranno con partita Iva, spiega come coltivare una sana cultura del lavoro autonomo. «Dobbiamo abbandonare la proverbiale solitudine del freelance e imparare a fare rete tra professionisti. E dobbiamo capire come tutelarci sia dal punto di vista fiscale che legale, con contratti chiari e una gestione puntuale dei risparmi. Farsi seguire da un consulente è un investimento importantissimo per un freelance» – suggerisce.

Ma soprattutto, dobbiamo cambiare approccio. «Si dà per scontato che il freelance abbia paura e questo porta molti committenti ad approfittarsene. Impariamo a dire “no” e rispettiamo i nostri valori». Un consiglio per iniziare? «Mettiamo in agenda il “tempo gentile” – conclude Reverberi -: un tempo solo nostro, apparentemente improduttivo, eppure ricco di vita buona».

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