Sofferenti finché sono studenti, esigenti, viziati e, in definitiva, insoddisfatti quando diventano lavoratori. È così che vengono per lo più dipinte le persone della GenZ.
Lo sguardo di cura e di attenzione che viene spesso rivolto loro durante la scuola e l’università si perde al lavoro, dove diventa interrogativo e, a volte, addirittura giudicante.
Cosa succede nel passaggio dall’istruzione alla sfera professionale? È la GenZ a cambiare oppure muta la lente con cui la osserviamo?
Scuola: come stanno i più giovani
Il 49,4% delle persone tra i 18 e i 25 anni afferma di avere sofferto di ansia e depressione a causa della pandemia. È quanto emerge dal Rapporto “Generazione Post Pandemia: bisogni e aspettative dei giovani italiani nel post Covid 19”.
Secondo l’ultimo rapporto UNICEF 1 adolescente su 7 nel mondo convive con un disturbo mentale diagnosticato; tra questi 89 milioni sono ragazzi e 77 milioni sono ragazze. L’ansia e la depressione si confermano, anche a livello globale, come i disturbi maggiormente diffusi.
Un quadro che ha inevitabilmente ricadute profonde sulla scuola. A tal proposito, il progetto “Mi vedete?”, promosso da Lundbeck Italia, ha raccolto dati importanti sulla salute mentale degli adolescenti proprio a partire dagli istituti scolastici.
“Il progetto, ha creato un’occasione di confronto tra genitori, docenti e ragazzi sul tema del benessere e della salute mentale. Dall’ascolto dei ragazzi è emerso un profondo desiderio di relazione (52% dei rispondenti). Relazioni che consentano ai ragazzi di essere ascoltati e compresi sia nel contesto familiare che in quello scolastico. Ascoltare, comprendere e agire sono gli elementi fondamentali per evitare che il disagio giovanile diventi un disturbo.”
Racconta Tiziana Mele, amministratrice delegata di Lundbeck Italia, evidenziando la necessità di prevenire quelle condizioni di malessere che il 71% degli studenti intervistati riferisce di sperimentare. Le implicazioni più comuni ad esso associate, riguardano: uso di sostanze, disturbi del comportamento alimentare, bullismo e disturbi del sonno. Quest’ultimi sono diffusi addirittura nel 68% del campione.
Risulta dunque evidente il disagio che gli adolescenti e i giovani adulti della GenZ sperimentano. Forse, non si sbaglia a descriverla come generazione sofferente. Cosa avviene, tuttavia, quando le persone appartenenti a questo cluster generazionale crescono e cominciano a lavorare?
Lavoro: come sta la GenZ
Secondo il World Economic Forum, la GenZ rappresenterà il 27% della forza lavoro nei paesi dell’OCSE entro il 2025. Ma come sta questa generazione quando entra nel mondo lavorativo? È davvero eccessivamente esigente? Dove finisce la sofferenza e il disagio sperimentato fino a poco prima? Si dissolve oppure assume nuove forme?
Per provare a rispondere a queste domande, ci vengono in aiuto i dati 2024 dell’Osservatorio BVA-Doxa Mindwork sul benessere psicologico nelle azienda italiane. Una ricerca che evidenzia come i lavoratori e le lavoratrici di questa fascia generazionale sperimentano, più degli altri, stress e ansia. Vissuti riportati, rispettivamente, dal 45% e dal 34% di loro.
A ciò, si aggiunge una minore soddisfazione percepita rispetto alla propria situazione lavorativa. Solamente il 41% delle persone appartenenti al target, infatti, si dichiara totalmente soddisfatta del proprio lavoro, rispetto a una media complessiva del 54%. Le motivazioni sono primariamente riconducibili a: stipendi troppo bassi, scarse opportunità di crescita professionale, mancato riconoscimento e valorizzazione. Per i lavoratori e le lavoratrici della GenZ, inoltre, è più forte l’insoddisfazione legata alla mancata identificazione con il proprio lavoro e all’assenza di coerenza con il percorso di studi effettuato.
Tale insoddisfazione si traduce nella valutazione di cambiare lavoro, proprio a causa dell’incompatibilità dello stesso con i propri valori. Attualmente, quasi 1 persona GenZ su 4 (23%) sta ponderando questa decisione, mentre il 55% di loro l’ha già fatto per motivi legati a malessere psicologico.
Dove sta la verità?
Alla luce di questi dati, si coglie una continuità nella sofferenza di questa generazione. Certo, le cause di disagio mutano e si differenziano – com’è naturale che sia cambiando ambiente, crescendo e cominciando un nuovo capitolo della propria vita – ma il malessere di base resta. E probabilmente si cronicizza.
Eppure, quando assume si correla al lavoro, fatichiamo a guardarlo con obiettività, finendo per cedere al pensiero che forse le persone appartenenti alla GenZ sono un po’ troppo melodrammatiche, non sanno gestire le difficoltà e le normali sfide della vita, sono fragili, sì, ma perché non si impegnano abbastanza e sono – per l’appunto – troppo viziate.
Dove sta la verità? Qualcuno direbbe nel mezzo. Forse. Soprattutto perché il rischio è di minimizzare e non accogliere la sofferenza che la questa generazione sperimenta e che i dati ci riportano. Quantunque dall’altra parte, però, c’è un pericolo: quello di pensare che il benessere debba essere assenza di malessere. No, il benessere si esprime anche nella capacità dell’essere umano di fronteggiare le difficoltà e attraversare la sofferenza.
Forse, a ben guardare, non serve nemmeno trovare la verità a tutti i costi. A patto che esista. Probabilmente, è sufficiente garantire a tutte le persone – a prescindere dalla generazione di appartenenza e del momento di vita in cui si trovano – servizi per la salute mentale. Dentro e fuori scuole e aziende.
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