Lavoro, un italiano su due è stressato. E le aziende non vedono il malessere

Quasi un italiano su due è stressato dal lavoro, il 25% si sente quotidianamente triste, l’11% arrabbiato. C’è un malessere che agita le persone, e non è più – o forse, non è mai stata – una questione individuale. È un’onda collettiva che mette in discussione i modelli manageriali tradizionali e ridefinisce il valore stesso del lavoro.

Un problema mondiale

Il rapporto “State of the Global Workplace 2024” di Gallup, condotto in 90 Paesi, parla chiaro: il disagio legato al lavoro riguarda tutti. Il 41% dei dipendenti nel mondo è stressato e il 20% sperimenta un senso di solitudine quotidiano. Una sensazione più forte per chi lavora completamente da remoto e per chi ha meno di 35 anni.

Fonte: Gallup, State of the Global Workplace 2024

Il lavoro, del resto, è sempre stato un abilitatore di relazioni sociali: non solo chi lavora si sente meno solo (20%) rispetto a chi non ha un lavoro (32%), ma chi da quel lavoro è coinvolto afferma di avere anche una vita complessivamente più felice.

Fonte: Gallup, State of the Global Workplace 2024

Il peso di una cattiva gestione

Il modo in cui sono gestite le aziende incide notevolmente sullo stato emotivo dei singoli lavoratori. Chi lavora in realtà con cattive pratiche gestionali ha quasi il 60% in più di probabilità di essere stressato rispetto a chi lavora in ambienti che mettono le persone al centro. Il management, in particolare, è ritenuto responsabile fino al 70% del benessere del capitale umano.

Fonte: Gallup, State of the Global Workplace 2024

Le aziende in cui i team si sentono più gratificati si distinguono per obiettivi trasparenti, feedback regolari, rispetto e comprensione reciproci. E se le persone vivono meglio sul lavoro, aumentano di conseguenza produttività e profittabilità delle imprese, a fronte di una riduzione dell’assenteismo. Viceversa, Gallup stima che il basso impegno delle persone sul lavoro costi all’economia globale 8.900 miliardi di dollari, pari al 9% del Pil mondiale.

Attenzione, però, perché la sfida a cui sono chiamati i manager non è facile, tanto che secondo la ricerca proprio i dirigenti sperimentano livelli più elevati di emozioni negative rispetto al resto della popolazione aziendale. Sono chiamati a trovare nuovi linguaggi, nuove modalità organizzative e, soprattutto, a ripensare il loro rapporto con il potere. Il tutto, in un contesto lavorativo in forte cambiamento, in cui l’arrivo di tecnologie, come l’intelligenza artificiale generativa, espongono buona parte della popolazione aziendale a precarietà e senso di inadeguatezza.

Fonte: Gallup, State of the Global Workplace 2024

I giovani soffrono di più

Secondo il report, sono soprattutto le nuove generazioni a mostrare in maniera più accentuata i segnali di malessere. Subiscono al contempo sia lo sfaldamento dei modelli tradizionali legati all’evoluzione delle carriere (un tempo il nesso “mi impegno, quindi cresco” era immediato, ora non lo è più) sia la perdita delle relazioni sociali. Il tutto mentre molte aziende sembrano non accorgersi della profondità del disagio provato e rispondono richiamando semplicemente i propri dipendenti in presenza (non ultimo il caso del colosso Amazon). La sfida è, invece, interpretare i bisogni sommersi e ripensare tempo e spazio del lavoro secondo logiche nuove.

Per riuscirci, non bastano app per la mindfulness o tappetini da yoga. Come conferma una recente ricerca della Oxford University, vi sono poche prove a sostegno di eventuali benefici di singoli interventi per il wellbeing. Concentrarsi su azioni spot, molto suggestive da raccontare ma poco autentiche, potrebbe generare l’effetto opposto e far aumentare il risentimento sociale.

Le condizioni macroeconomiche

Infine, avverte Gallup, occhio al contesto esterno. Le condizioni macroeconomiche incidono sullo status emotivo dei lavoratori in modo significativo. Chi vive in Paesi con un mercato del lavoro dinamico tende a sentirsi meno infelice e più libero di lasciare situazioni lavorative negative per trovarne di migliori. In Italia, appena tre persone su dieci ritengono che sia un buon momento per cambiare lavoro. Ma il fatto che non si dimettano non vuol dire che siano felici o si sentano coinvolte. Potrebbero semplicemente aver paura di non trovare altro o di peggiorare la propria condizione.

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